La notte prima di Sanremo, qualcuno bussa alla porta di Amadeus…
Era una notte gelida. Il vento ululava passando velocemente tra le strade della città semivuota. Il mare mosso sembrava presagire l’avvenire funesto che si sarebbe abbattuto su quelle sponde. Amadeus passeggiava frettolosamente nella sua stanza: avanti e indietro, aveva percorso chilometri a piedi nudi sul parquet. Nonostante fosse il secondo anno consecutivo che passava in questo albergo, nulla gli sembrava familiare. Era appena tornato dalle prove: erano state estenuanti. Aveva spesso pensato che quello fosse un incarico troppo oneroso per le spalle di un solo uomo. Benché si possa pensare che la sua posizione fosse in qualche modo privilegiata, lui non aveva mai davvero assaporato quel privilegio. Era stanco.
Indossava da mesi lo stesso sorriso davanti alle telecamere, davanti ai suoi collaboratori, a sua moglie, ai giornalisti: ormai aveva un perenne dolore agli zigomi. Quando tornava in camera e gli capitava di restare solo, rilassando i muscoli della faccia percepiva un barlume di gioia. Restava immobile per qualche istante e poi, raggiunta la poltrona, vi si abbandonava. Sprofondava ma resisteva alla tentazione di scivolare in un sonno che lo avrebbe distratto pericolosamente dal suo obiettivo. Quella era la notte prima dell’inizio del Festival di Sanremo e Amadeus temeva che addormentandosi avrebbe formattato la sua memoria e che non sarebbe riuscito a condurre a termine quell’impresa. Le sue palpebre non erano d’accordo: si chiusero.
Bussarono alla porta con veemenza.
Spalancò gli occhi, trattenne il fiato, come se fosse tornato indietro dalla morte stessa. Si spaventò. Bussarono di nuovo. Qualche istante ancora sospeso e poi organizzò in fretta una risposta: “chi è?” Nessuno rispose. Decise allora di alzarsi e andare cautamente ad aprire. Spiò dall’occhiello, si ritrasse e aprì senza indugiare. Era Cristian Bugatti. Sembrava avesse corso: aveva il completo logoro, il sudore sulla fronte, un odore terribile. In viso una barba incolta incorniciava un’espressione di autentico terrore. Amadeus era troppo stanco per notare ogni dettaglio: lo fece entrare, accomodare e poi gli chiese se volesse qualcosa da bere, dirigendosi verso il minibar. Bugo non aprì bocca.
Erano seduti uno di fronte all’altro, poltrona contro poltrona.
Le luci erano soffuse e il vento si era fermato di colpo. Quell’improvvisa visita aveva ridestato Amadeus che, guardando bene l’uomo di fronte a lui, cominciò ad avere qualche dubbio. Gli chiese che cosa ci facesse lì ma Bugo continuava a guardare il pesante bicchiere contenente due dita di gin, che l’istante prima gli aveva porto il conduttore. Il tempo sembrava dilatato, il silenzio non creava alcun imbarazzo. Si decise e parlò: “Sono Bugo. Sono Tornato”. Amadeus non capì: l’aveva visto qualche ora prima alle prove, avevano conversato e ridacchiato sul fatto che sarebbe stato assurdo se Morgan avesse fatto irruzione durante una delle serate. Avevano chiarito alcune cose riguardo la diretta e si erano salutati. Che cosa voleva dire allora con quelle parole?
Bugo continuò, vedendo Amadeus per niente sorpreso: “L’anno scorso quando ho lasciato il palco dell’Ariston, sono uscito in fretta sul retro. Ho acceso una sigaretta: ero agitato. Non ho ben capito cosa stesse succedendo. Si sono avvicinati un paio di loro, saranno stati tre o quattro, non lo so. Mi hanno messo un cappuccio in testa e mi hanno portato via. Capisci Amadeus?? Mi hanno rapito!”. Scoppiò in lacrime, ma era evidente che non ne aveva più. Fu tutto chiaro. Il vestito logoro era esattamente quello dell’anno prima: chissà dove aveva passato tutto quel tempo, chi lo aveva rapito e soprattutto: chi era allora colui che aveva interpretato Bugo per un anno intero?
“Che cosa faccio?” Amadeus aveva le mani in faccia, come a coprire la disperazione che l’aveva colto: “Che cosa posso fare?”.
Insisteva, costringendo se stesso a trovare subito una soluzione. Si alzò, era agitato: la luce di lampioni in strada entrava fugace nella stanza attenuando il pallore che aveva invaso il suo volto. Bugo si asciugò le lacrime e restò in silenzio: ripose sul tavolino di fronte a lui il bicchiere di gin intatto e si volse verso Amadeus come se stesse aspettando degli ordini. “Dovrei chiamare la polizia e denunciare subito ogni cosa! Ma certo, bravo Amadeus! Butta via mesi e mesi di lavoro! Sicuramente fermerebbero tutto: indagini, interrogatori, ricerche. No! Non posso. Ci deve essere un’altra soluzione!” Intanto aveva ripreso a passeggiare frettolosamente per la stanza. Rifletteva con la stessa apprensione di quando si fruga in mezzo a un mucchio di cianfrusaglie in cerca di qualcosa che si è perso. Eppure doveva essere lì, l’aveva avuta in pugno fino a pochi minuti prima: come gli era potuta sfuggire così velocemente la situazione dalle mani?
“Potrei nasconderlo qui per i prossimi cinque giorni! E magari far venire tutto a galla nel momento opportuno! Ma sì, chi se ne accorgerebbe?! E se poi fuggisse e irrompesse sul palco durante la diretta? Queste porte si aprono facilmente dall’interno, per non contare il fatto che potrebbe chiamare la reception e mandare tutto a rotoli. Che faccio?”. Si fermò davanti la porta del bagno, entrò. Lavò il viso con energia, come a voler scrostare via tutto ciò a cui aveva assistito nell’ultimo quarto d’ora. Si guardò dritto negli occhi per qualche istante, poi sorrise: aveva avuto un’idea.
Corse ad aprire il rubinetto della vasca da bagno e si precipitò fuori da quella stanza minuscola. Prese Bugo per un braccio e gli spiegò che era l’ora di darsi una sistemata: lo aiutò a togliersi quei vestiti logori e gli preparò per bene un bagno caldo. “Tu adesso resta qui e rilassati, troveremo una soluzione. Ok?” Così gli disse, ma sembrò che volesse autoconvincersi di aver avuto una buona idea. Uscì dalla stanza, chiuse dietro di sé la porta. Camminava a passo svelto osservando attentamente ogni angolo di corridoio. Cercava qualcuno.
In quell’albergo lo conoscevano tutti e tutti avevano una parola gentile per lui.
“Signor Amadeus, come sta sua moglie?” “Signor Amadeus, buona fortuna per il Festival” “Speriamo di rivederla anche l’anno prossimo”. Aveva, però, avuto modo di legare particolarmente solo con il fattorino che solitamente era a sua disposizione per il servizio in camera. Avevano parlato qualche volta, si erano scambiati delle confidenze: in quel momento gli sembrò l’unica vera persona di cui potersi fidare. L’ansia e il panico gli annebbiavano la ragione. I pensieri sembrano un groviglio indistricabile di cui la matassa principale risiedeva proprio sul suo capo. Gli avrebbe chiesto di badare a Bugo in sua assenza, di assicurarsi che non scapasse o facesse sciocchezze. Scioglieva di metro in metro il gomitolo di questi pensieri ad ogni passo incerto, claudicante.
Con l’andatura sbilenca di un maratoneta aveva raggiunto la hall. Chiese di quell’uomo bisbigliando alle poche persone che si erano intrattenute fino a quell’ora. Cercava di darsi un contegno prima di parlare: aveva visto il fattorino così tante volte, ma non era in grado di descriverlo accuratamente. Lo aveva sempre guardato distrattamente, lo aveva dato per scontato: la verità era che a stento ne ricordava il volto. Non lo trovò e nessuno gli seppe dare una mano. Si diresse, allora, verso l’ascensore, sconsolato, sconfitto e con la mente vuota di chi sa di aver perso ogni speranza.
Dall’ascensore sentì un forte rumoreggiare di persone provenire dal corridoio.
Fece qualche passo e notò una folla accalcata alla porta di camera sua. Questa volta corse. “Sono Amadeus! Questa è camera mia, lasciatemi passare!” Entrò. C’era stato un allagamento. Qualcuno dal corridoio se ne era accorto e aveva avvertito il direttore dell’albergo. Era intervenuto lo staff: avevano aperto la porta, chiuso il rubinetto della vasca e iniziato a ripulire. Qualcuno aveva cercato di contattarlo ma adesso era lì. “Stia più attento signor Amadeus, sarebbe potuto accadere un disastro” Amadeus aveva la testa ovattata ma annuì, immobile, pietrificato. Poi si guardò intorno con gli occhi spalancati cercando Bugo. Era sparito. Esitò: voleva chiedere a qualcuno, ma non lo fece. “Se fosse uscito dalla stanza, l’avrebbero visto e riconosciuto. Ma allora dove è finito? Dov’è Bugo?”
Le persone cominciarono a tornare nelle proprie camere e lo staff terminò il suo lavoro in fretta e con efficienza. Amadeus aveva guardato ovunque, con discrezione, anche sotto il letto. Era sparito perfino il cumulo di vestiti logoro e l’odore nauseante che portava con sé. Alla fine si era seduto. Con le mani in faccia, piegato in avanti, aveva iniziato a piangere. Era stato sopraffatto: la diga che aveva costruito in quei mesi aveva retto enormi quantità di stress. Quell’ultima valanga, però, la fece crollare di colpo. L’ultimo uomo dello staff si congedò, gli augurò buona notte e buona fortuna per il Festival. Chiuse la porta dietro di sé.
Rinvenne all’improvviso: si era trattato di un sogno?
Aprì gli occhi, alzò la testa: ogni cosa giaceva immobile avvolta da un silenzio cosmico. Ogni oggetto era al suo posto. Tornò in piedi e iniziò a prepararsi per dormire. Era ormai notte fonda. Tolse l’orologio, sbottonò la camicia. Di fianco al letto c’era un mobiletto con uno specchio. Svuotò le tasche, ripose l’orologio, il badge, il portafogli. Si guardò negli occhi. Era esausto. “Amadeus hai sognato. È evidente. Non c’è stato nessun rapimento”. Si diede qualche schiaffetto sulle guance. “Ma che brutti scherzi che fa il sonno quando incontra la stanchezza più profonda eh!?” Sorrise e si convinse per qualche istante di quei pensieri, frutto di un istinto di autoconservazione che ancora lo teneva in piedi.
Poi impallidì.
Era ancora lì, lo notò attraverso lo specchio. Sul tavolino in mezzo alle due poltrone c’erano esattamente due bicchieri. Uno vuoto, il suo. L’altro intatto, proprio lì, dove Bugo l’aveva lasciato.
*ogni fatto narrato è frutto della nostra fervida immaginazione*
Raffaele Nembo Annunziata
Sono Raffaele Nembo Annunziata, direttore e fondatore de Le Rane, spero che sia stato di tuo gradimento ciò che hai trovato da queste parti. Torna presto!