La musica è comunicazione. Risponde ad un’esigenza ancestrale di condivisione e di senso di appartenenza. La musica ha un valore cultuale e culturale. E se nel 2020 l’esplosione della pandemia legata alla diffusione del Covid-19 ha “costretto” l’intera umanità a rivedere alcuni sistemi dialettici e tempistici, anche la musica in qualche modo ne ha risentito. Ma abbiamo davvero smesso di prestare attenzione a quello che ascoltiamo? Il mercato discografico è cambiato in modo irreversibile? E, ancora, tornerà la dimensione live? Il nuovo libro di Riccardo De Stefano “Musica in lockdown” è una lettura imprescindibile per avvicinarsi ad una risposta a queste domande. Si tratta di un’opera dal valore narrativo e documentario, in cui sono contenuti gli interventi e le interviste a professionisti del settore dello spettacolo in ambito musicale.
Lo abbiamo intervistato per voi.
È stato difficile a livello emotivo raccontare queste vicende? E come è andata a livello di ricostruzione dei fatti avvenuta quasi in tempo reale?
Sì. È stato abbastanza difficile. Quando si scrive di qualcosa che è ancora molto attuale innanzitutto si ha quel fenomeno che su Wikipedia si trova come recentismo. Cioè la mancanza o meno di avere un distacco emotivo dal momento storico di cui si parla. Poiché si è troppo coinvolti. È difficile avere un’oggettività. Mentre il mio primo libro “Era Indie” racconta di un arco di tempo di dieci anni, “Musica in Lockdown” parla in maniera specifica del 2020. La difficoltà c’è stata anche nella scelta degli argomenti da inserire; ho preferito parlare prevalentemente di quello che è successo in Italia, anche se il Covid e il lockdown sono circostanze che hanno colpito in modo diverso tutto il mondo. Ho accennato però ad alcuni fatti relativi agli Stati Uniti come #blacklivesmatter che ho potuto raccontare con l’occhio di un italiano in modo forse anche un po’ freddo. La materia in ogni caso è molto complessa. Comunque si va a toccare una tragedia. L’approccio del libro vuole essere leggero ma non superficiale.
Negli anni Sessanta Glenn Gould aveva ipotizzato che circa un secolo dopo la musica live sarebbe stata un lontano ricordo. Al momento attuale, considerando questa affermazione, si può pensare che la musica live possa tornare come prima?
La musica live tornerà perché è l’unico modo in cui la musica esiste realmente. Noi abbiamo cambiato la concezione della musica pensandola ora come registrata, ma la musica registrata è una conseguenza della musica live. Non è una cosa opposta o alternativa. La musica registrata ci fa vedere il concerto in streaming come se fosse un concerto live, ma il concerto in streaming, semplicemente, non è un concerto live. Lo streaming è un ibrido che si avvicina di più al concetto di riproduzione tecnica della musica. Anche perché spesso, pure il concerto in streaming non è veramente live: si tratta di modalità di gestione della comunicazione e del palco stesso, diverse.
Sicuramente tornerà la musica live, anzi probabilmente non è mai sparita. In estate ci sono stati dei concerti a numero ridotto. La musica dal vivo cambierà, ovvero tornerà in una forma diversa. Quando nella società qualcosa viene profondamente modificato, mai si torna indietro. Come dice Gaetano Blandini di SIAE, i duecentoventicinquemila spettatori paganti di Modena Park non li vedremo più. O forse non più negli anni 20. La musica live non può morire perché è l’unica forma di musica reale. La musica è una forma sociale. È un’arte legata al tempo e non allo spazio, all’udito e non alla vista. Si può vivere realmente soltanto dal vivo. Scopriremo quale.
La musica prodotta nel 2020 è stata pensata, secondo te, per una fruizione individuale, nelle proprie cuffie o anche con la speranza di un ritorno al live?
In generale, negli ultimi dieci anni la musica è stata pensata per lo studio di registrazione. Sono pochi gli artisti che partono dal vivo. E comunque la musica dal vivo tende sempre più a suonare come la musica registrata. Non il contrario. La cosa interessante del 2020 è che, secondo le classifiche, la musica più innovativa è minimale, acustica, quasi ridotta. Penso a Fiona Apple con il suo “Fetch the bolt cutters” che è un disco molto casalingo nei suoni. Ma credo che l’emblema di questo adattamento domestico sia stata Taylor Swift che ha pubblicato due dischi in questo senso, “Folklore” ed “Evermore”. Un po’ forse per redimersi dal pop super-radiofonico precedente, un po’ forse è stata un’operazione mirata.
In Italia probabilmente c’è stata una grande incapacità di affrontare il problema. La maggior parte delle etichette ha spostato tutto non sapendo quando e se i dischi sarebbero usciti. Si pensi a Iosonouncane che da dover pubblicare nel 2020, ha programmato un tour nel 2022, a due anni di distanza. È questione di adattarsi al contesto. Forse nel 2021 vedremo anche musica pensata per lo spazio domestico.
Alla luce dell’evoluzione della fruizione della musica, che attualmente va di pari passo anche con quella dei social, si può dire che mediante le app come Instagram o anche TikTok che inducono ad avere un’attenzione sempre più breve, la musica sia diventata un sottofondo?
I social portano un’incredibile visibilità anche nel mercato della musica. Si tratta a quel punto di una musica a cui si presta un tipo di ascolto derivato, come se fosse un sottofondo. E neanche Spotify è fuori da queste dinamiche: i singoli brani sono sempre più brevi, devono entrare nelle playlist per essere ascoltati. Un genere di ascolto insomma molto disattento, relativamente ai contenuti. Un ascolto che trionfa solo quando l’oggetto dello stesso diventa virale. È una cosa negativa, ma inevitabile.
Nel libro c’è un capitolo specifico su Spotify con delle riflessioni relative ad un’intervista a Daniel Ek, CEO di Spotify, su quanto fosse cambiata la discografia. Ma a questo proposito direi che probabilmente l’unico artista in Italia che ha colto l’idea del dover avere un piazzamento sempre continuo nel mercato discografico è Achille Lauro. Lui ha sicuramente ben chiaro come si debba sviluppare un prodotto discografico attuale. Questo sistema indubbiamente ha ucciso il meccanismo fondato su disco-promozione-tour, ma di fatto è in aderenza al dover avere un piazzamento perenne all’interno dell’opinione pubblica, per non parlare dell’algoritmo. È un processo inevitabile. Anche se a me personalmente piace che la musica abbia un supporto fisico. Ma ha senso arroccarsi nell’idea che la musica deve essere ancora in formato album?
Questa “musica in lockdown” però in qualche modo si è fatta sentire.
Dunque, la cosa assurda del lockdown è che ci ha fatto pensare alla musica come una cosa avulsa dalla realtà.
Noi abbiamo sempre dato la musica per scontata, la musica non fa parte della società, questa è la realtà. Lo abbiamo visto da una certa superficialità delle istituzioni; ma forse l’aspetto più pop e anche più bello e anche un po’ cringe è stato il fenomeno della musica dai balconi. Ha rappresentato il fatto che ognuno di noi ha una concezione della musica soggettiva ma anche distaccata dalla realtà. Riversarsi sui balconi è stato il gesto più pop che si potesse fare. Era un bisogno, uno sfogo. Credo sia stato molto catartico.
Quindi è stato un bisogno quasi ancestrale di cantare per liberarsi dalla paura. In fondo quando si ha paura, al buio, si canta.
Ecco. È una bella immagine. Dunque, per dare anche un segnale positivo, c’è stato il tentativo di portare per esempio il Primo Maggio in televisione, per simulare e dissimulare la realtà, come anche Heroes all’Arena di Verona, proposto come evento in streaming che però non ha mantenuto le aspettative. Ma direi a questo punto, citando Boris, “siamo molto italiani”.
La musica è cultura, la musica è culto, quindi è qualcosa da coltivare. Secondo te, attualmente la musica viene coltivata, o è prodotta, quasi in senso industriale?
Non a caso questo è un problema culturale. Nel libro pongo la domanda “A chi interessa la musica?”. Siamo in un momento in cui l’ascolto è casuale e, come dicevamo anche prima, la gente dà la musica troppo spesso per scontata. Motivo per cui è apprezzabile il lavoro de “La musica che gira”, “Bauli in piazza”, per dar voce a tutte le professioni che riguardano il settore dello spettacolo. Purtroppo, oggi la televisione è l’unico modo con cui la musica diventa nazionalpopolare. Ma in televisione c’è anche l’appiattimento di qualsiasi forma del mettere in discussione. Perché non conviene a nessuno. La cultura è bella perché è uno scontro fra le parti. Quella che vince diviene cultura dominante. La musica ha smesso di avere un’importanza culturale ed è diventata una guerra per la visibilità.
Nel libro viene affrontata anche la tematica del ruolo dei professionisti del settore dello spettacolo.
Il libro affronta la tematica dei lavoratori dello spettacolo, certamente, ma soprattutto quello che riguarda i locali dal vivo, lo spettacolo in sé. Il libro inizia con una citazione di Emiliano Colasanti, che dovrebbe essere una spia per un sotto-testo che vorrei potesse emergere almeno un po’: non sono del tutto scontento della situazione riguardo i locali dal vivo. C’è una parte del sistema che ha approfittato di certe situazioni elevando il cachet, distorcendo le carriere degli artisti per guadagnarci. C’è stato quasi un rifiuto delle norme per portare più gente nei locali raggirando le questioni burocratiche. Di fatto c’è chi ha agito nell’illegalità per decenni, magari mettendosi da parte una bella cifra di denaro. Il Covid ha esasperato problemi che c’erano pure prima. La citazione è questa:
“Questo settore non è entrato in crisi per il Covid. Si appoggiava su dinamiche molto poco sostenibili già da prima. Il Covid ha dimostrato la fragilità di un sistema che però è un sistema marcio”
Per concludere, s’è parlato tanto di resilienza. Il concetto può riguardare anche la musica?
Vorrei dire che questo libro è anche una dedica ai musicisti che questo periodo hanno perso la vita. Non ne parlo nel libro per rispetto e per evitare la pornografia del dolore. Quindi concludendo alla fine del libro mi domando se abbiamo imparato una lezione da tutto questo: forse c’è da ripensare la musica per il futuro. Speriamo che il mercato musicale possa tornare in un’ottica di sostenibilità e che non sia l’ennesima gara a speculare. Anche un po’ ingenuamente possiamo sperare di poter ripensare la musica in senso di valore culturale, di comunità, di resilienza e di appartenenza.
Intervista molto interessante che si concentra sugli aspetti salienti del libro in modo graduale evidenziando profonda conoscenza della materia e competenza del linguaggio musicale