“La casa è una e se ci organizziamo bene tutti facciamo l’amore”. Esordiscono così i Selton nella titletrack del loro nuovo album, Benvenuti, uscito per Universal lo scorso 16 aprile e in versione fisica da fine mese.
I Selton si definiscono semplicemente tre ragazzi brasiliani, che sperimentano con la musica e vivono a Milano. Ma già da queste parole, se stiamo bene attenti, traspare tutta la rivoluzione del loro sound coloratissimo: una saudade inversa, che del dolore fa allegria e dell’allegria reazione autentica ad ogni sofferenza. I Selton si pongono agli interstizi fra dolore e sofferenza: se il primo è inevitabile, la seconda la si prova sostando su quel dolore senza riuscire ad andare oltre. Proprio quell’oltre ci viene invece proposto da Daniel, Eduardo e Ramiro, con tracce di disarmante attualità e di altrettanto disarmante ironia.
“Italiano, brasiliano, essere umano, cuore pulsante col destino tracciato dalle frontiere storte disegnate a mano”
Partendo da questi primi versi di Benvenuti possiamo notare la forte carica esplosiva ed eversiva di una ribellione vera alle identità imposte, al di là del riferimento migratorio, che resta senza dubbio spiccato. Le frontiere delle nostre vite sono storte, imprevedibili e disegnate a mano: inutile allora incaponirci sulle definizioni che vogliamo dare alle cose.
In fondo, “non esiste un Dio che ci fa diventare più umani” anche se poi, in Sigaretta in mano a Dio, ci vediamo bruciare di fretta, proprio come una sigaretta in mano al Creatore.
La sottile ironia dei Selton si spinge, in questo pezzo, a citare il mio gruppo preferito (che in realtà è anche il loro). Sul finire del brano sentiamo infatti cantare “however big you think you are”, chiaro rimando a Sexy Sadie dei Beatles. Se nel pezzo del ’68 la critica neanche troppo velata era rivolta al Maharishi Mahesh Yogi e al suo considerarsi alla pari di un dio, la stessa frase, letta oggi, può aprire una riflessione molto più ampia sul nostro continuo crederci invincibili, laddove proprio per quanto uno si creda grande – come cantano i quattro di Liverpool nel verso successivo della canzone – “you’ll get yours yet”, avrà comunque ciò che merita.
Ciò che ciascuno di noi merita è forse collegato a ciò che ciascuno di noi fa o dà: il karma è appunto questo.
Come in Karma Sutra, dove si parla di una storia in cui “c’è stato del bello, ma è sbiadito come un pastello”. Il protagonista non si ricorda come dare amore in modo sano, prigioniero dentro un cuore di pietra. Ma la co-protagonista della vicenda (qui con la voce di una splendida Margherita Vicario) si ritrova a fare tutt’altra valutazione.
“Ah, non ti ricordi come si fa? Ma questa è una scusa. Dai, ti piace solo avere una che aspetta, ma che cosa brutta! Proprio da stronzo che dice il problema sono io”
Si parla di rapporti logorati senza colpa alcuna da parte di chi li vive. Ma forse, a ben guardare, la chiave di volta sta nel poter seguire fino in fondo quell’oltre di cui parlavo prima, in introduzione. Evitare la sofferenza con l’allegria di un sorpasso al dolore, senza nascondere le proprie insicurezze ma offrendole sinceramente all’altra persona. Altrimenti, come in questa canzone, il karma è ineludibile e il colpo di scena dietro l’angolo: dopo un anno, la stronza che dice “il problema sono io” di fronte a un ritorno del protagonista è diventata proprio la medesima ragazza costretta ad ascoltare precedentemente le stesse parole.
La semplicità con cui vivere veramente un rapporto di coppia è narrata poi invece fra le strofe di Vieni a dormire da me.
Due espressioni in particolare mi hanno colpito moltissimo: la realtà di un innamorato che legge l’altra persona “come un libro per bambini” e la dichiarazione d’amore forse più bella del disco, ovvero “mi piace il modo in cui sogni mentre guardi la realtà”.
Pure il lutto, di fronte a un bene così grande, viene ridimensionato nella sua gravità. Nel brano I piatti, un uomo muore e lascia la sua amata con i piatti da lavare, il letto da rifare e il mutuo da pagare. “Hai detto tienimi la mano in mezzo a un uragano” ma poi “odio lasciarti così, con tante cose da fare, proprio adesso che conviviamo”. Il testo finisce con una promessa: tornerò. Se non altro, nei ricordi.
L’intermezzo strumentale Intermission: Panorama sembra quasi separare il disco in due parti. C’è un lato A dai temi più seri e un lato B in cui invece la fa da padrone il nonsense.
“In tempi bui” ci viene ricordato “divertirsi può essere rivoluzionario”
Campari di musica parte da un gioco di parole per trasformare il sogno che vi è insito, campare di musica appunto, in un marasma di riferimenti e ritmi casuali ma sempre puntuali nella loro ironia: uno su tutti l’agognato “disco di platano”.
Pasolini ci ricorda come il tempo rumoroso dentro cui viviamo ci costringa talvolta a parlare, solamente per non stare zitti.
Oppure a non parlare affatto, mandando soltanto “un vocale, mi si scioglie il tempo verbale”. E per tutti quelli che pensano che questo pezzo sia privo di contenuto, i Selton si ritrovano a ripetere ossessivamente il nome di Pasolini. Quasi a dimostrazione di quel citazionismo tutt’altro che colto che ormai pervade le nostre vite.
“Questo era lo spazio dedicato al featuring” li sentiamo dichiarare poi “ma nessuno se l’è sentita di rovinare la sottile ironia di questo pezzo”
Con Fammi scrollare l’alienazione del mondo in cui siamo immersi viene evidenziata dal rapporto che abbiamo coi social. “Non puoi dire che hai un’idea se non la posti, non puoi dire che hai una vita se non la mostri”. È la triste verità di chi sceglie di alienarsi totalmente al mondo virtuale senza potersi mai dire nudo per davvero, perché sempre con “il telefono in tasca”. Di qui, una verità ancora più sconcertante, perché riguarda non soltanto le scelte individuali dell’uomo ma anche quelle che sanciscono poi il futuro del pianeta terra e del suo ecosistema.
“Penso che se gli alberi fornissero wifi invece che ossigeno, allora salveremo l’Amazzonia”
Lo sconcerto non elimina qui l’ironia della situazione, anzi: la rafforza. Anche se, nel brano Estate, sembra prevalere la saudade vera: malinconia di un inverno incombente che ci porta ad odiare l’estate, perché impermanente. Anche noi, a ben vedere, siamo impermanenti al mondo. E l’unico modo per sfuggire a questo ineluttabile destino è quello di non perdere mai il proprio tempo, come cantano i Selton in Temporeggio. Solo così il momento che viviamo potrà reggere anche tutte le nostre amarezze. Con il colore della musica e l’allegria di saperci Benvenuti, sempre e ovunque.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.