I Sindrome di MA sono un gruppo nato a Trieste nel 2017. Un nome misterioso che sembrerebbe una malattia e un disco d’esordio che ci pone una domanda semplice eppure complessa rendono questa band sui generis un progetto emergente da tenere d’occhio. Il pop proposto dai Sindrome di MA è fortemente intriso di sonorità analogiche e strizza l’occhio ad artisti internazionali come i britannici Kooks e Cate Le Bon.
Oggi vi presentiamo in anteprima il videoclip di “Come In Una Bolla“, ultimo singolo estratto dall’EP “Hai paura del buio?“. Per l’occasione, ci siamo anche fatti raccontare alcuni retroscena direttamente da Giacomo, Lorenzo, Andrea e Francesco. Ecco le loro risposte.
Avete paura del buio?
Forse sì o forse no, di sicuro ci abbiamo scritto un EP.
È una di quelle paure che di solito prende i più piccoli, perché molto semplice, “facilmente superabile”, considerata quasi del tutto sciocca. Del resto, basta accendere la luce. Ma proprio su questo abbiamo voluto riflettere. Il buio è paragonabile a ciò che non si conosce, a qualcosa di non chiaro come lo è l’ineluttabile incertezza racchiusa nel futuro. Una sensazione di spaesamento, di mancanza di riferimenti, che ci ha portato a pensare e quindi scrivere queste cinque canzoni con un concetto che le lega assieme.
C’è da dire però che siamo un gruppo Indie Pop: tutto assume connotati di leggerezza; ci reputiamo felici, niente paura.
E degli Afterhours?
Perché avere paura di un altro gruppo? Anzi, ci piacerebbe avere un briciolo della soddisfazione che siamo sicuri provino guardando a ciò che hanno realizzato nel panorama musicale italiano. Per fortuna non abbiamo ancora avuto una casa discografica alle spalle, ma 20 canzoni contro 5: è una sfida persa in partenza.
Come e perché avete dunque deciso di dare questo nome all’EP? Un titolo importante per la storia della musica italiana.
Diciamo che tutto l’EP, così come il lato comunicativo e visivo conseguente, lo abbiamo voluto basare su questa paura primordiale. Abbiamo appunto creato un personaggio, “il boia Lello”, diventato poi l’ICONA di questa release, il quale con ironia sembra proprio chiederti se ne provi paura guardandolo. Un gioco, forse una ricerca di attenzioni, forse solo un modo per creare interesse, chissà. Parlando di storia, invece, durante lo scorso autunno stavamo discutendo su quale potesse essere il titolo più adatto. Eravamo decisi a trovarne uno che potesse essere correlabile alla condizione che da più di un anno ormai caratterizza il mondo intero (eravamo in videochiamata, al tempo). La “paura del buio” stava sorvolando le nostre menti da un po’.
Era il concetto che sembrava adattarsi di più anche ai vari significati delle canzoni, sebbene le sonorità e un primo ascolto diano una sensazione probabilmente diversa, più frivola e semplice. La paura – soprattutto la paura del buio, ci ciò che non si conosce (perché ancora non visibile e inesplorato) – accomuna questi cinque brani, dai quali emergono un vissuto che inerisce a sensazioni d’incertezza, di dubbio, di timore verso il futuro. Infine, ci siamo detti che pur non essendo i primi a sceglierlo, se il titolo che ci piaceva era proprio questo, perché non utilizzarlo? Un po’ per gioco, un po’ per testardaggine, lo abbiamo confermato.
Partendo dalla prima traccia, “Avocado”, ci trovo dipinto dentro un senso di evasione e una ricerca di fuori che caratterizza molto il periodo odierno. Qual è la prima cosa che fareste sulla Terra, di ritorno dallo spazio? Il che è un po’ come chiedere qual è la prima cosa che fareste fuori, di ritorno da una pandemia globale?
Un avocado toast il sabato mattina, il pomeriggio in saletta a suonare e, infine, l’andare a un concerto tutti insieme la sera stessa – sarebbe la giornata perfetta. Ci manca fare concerti, stare assieme tutta la notte, divertirci, scrivere canzoni stando nella stessa stanza per ore, raccontarci i segreti, senza la gabbia del coprifuoco dettato da questa emergenza. Tutto questo è sintetizzato da una semplice parola: spensieratezza. Diciamocelo però, se ascolti per bene le nostre canzoni, siamo proprio il contrario di questo!
Dopo l’evasione descritta in “Avocado”, “Piango se non pogo” è un brano più incentrato sull’esclusione. Esclusione da determinati riti sociali, quali appunto il pogare ad un concerto. Quanto, secondo voi, sono ancora necessari questi rituali e in che modo ci definiscono?
Cambiano le forme e anche i contenuti attraverso cui si manifesta, ma la paura di sentirsi esclusi rimane tale. In generale, i rituali definiscono e scandiscono la quotidianità e intere fasce di vita, di popolazione, di società, di classe. Restando nell’ambito adolescenziale/tardo-adolescenziale, i rituali sociali sono necessari a definire la propria personalità e a capire come il proprio ego vada sempre riferito rispetto a un contesto più grande, che può piacere e non piacere, può essere fonte di agi o di disagi. Diremmo che soprattutto nel periodo adolescenziale i rituali servono a sviluppare una propria coscienza. “Faccio parte del gruppo, di questo gruppo? Ho davvero bisogno di appartenervi o ce ne sono altri di più adatti a me? Necessito sul serio di un gruppo?”. Tutte tappe del percorso di crescita.
Siamo strenuamente convinti che essere onesti con sé stessi sia molto importante, cosa che va poi a braccetto con il riuscirsi ad accettare, il volersi bene e il vedere nel proprio io, l’unicità e la bellezza. Chi più chi meno, siamo proprio tutti delle frane in questo. Ma è il bello di crescere, ossia che pian piano ci si conosce, si scoprono i propri limiti, si impara ad accettarsi. Socializzare richiede comunque una certa quota di adattabilità. Ma, a parer nostro, non ci si deve ritrovare in situazioni che facciano sentire fuori luogo e diversi da come ci vorremmo.
Dopo evasione ed esclusione, c’è “Guerra dei mondi”: l’invasione, stavolta. Quella reciproca, che caratterizza una relazione fra due persone. “Prendi quello che vuoi, prendi tutto e scappa via”: l’amore è anche una razzìa di questo tipo?
L’amore è una vera e propria Guerra Dei Mondi, un continuo scontro tra il Razionale e l’Irrazionale. E ci si può definire “invasi” proprio quando non si distingue più la differenza tra questi due mondi. Una consapevolezza, una dichiarazione quella del “prendimi tutto e scappa via” che forse non andrebbe mai fatta fino a quando non si raggiunge quel livello di maturità relazionale che porta a voler dare e a concedersi senza però tradire sé stessi, facendosi eclissare. La difficoltà sta nell’arrivare al sopraccitato livello di maturità, prima di raggiungere questo, l’amore è sempre per un certo grado una razzìa.
Il rapporto di coppia la fa da padrone anche in “Tra le righe”. Ma, più che il testo, è il sound del brano ad incuriosirmi: colori pastello e nuance più grintose convivono alla perfezione, dando un senso complessivo di incisività e insieme di emotività. Chi vi è stato finora di ispirazione per la direzione sonora che state dando al vostro percorso?
Tra Le Righe è uno sfogo, dall’inizio alla fine. Ed è proprio per questo che nella composizione e arrangiamento del brano ci siamo sentiti liberi di dare tutto noi stessi, ognuno esprimendosi attraverso il proprio strumento, creando una sinergia tra le parti fino a farle arrivare a un punto d’incontro, nonostante l’eterogeneità delle nostre influenze musicali.
Volendo fare un po’ di nomi, citeremmo di sicuro: The Feeling, King Gizzard & the Lizard Wizard, Cate le Bon e Piero Umiliani, insieme anche a un po’ di indie italiano vecchia scuola, come i Tre Allegri Ragazzi Morti e Il Teatro degli Orrori.
E arriviamo infine al pezzo di cui proponiamo la clip in anteprima. Come in una bolla è proprio il contrario di “Avocado”, per quanto riguarda il messaggio: non c’è evasione ma un senso di costrizione. Una costrizione che, paradossalmente, proprio imprigionandoci dentro i nostri loop mentali ci porta a distaccarci, lontani da noi stessi e dal mondo, per finire spaesati dentro una bolla. Quale metodo suggerite per farla finalmente scoppiare?
Per assurdo la bolla di cui parliamo è una bolla di sapone, basta toccarla per farla esplodere. Il concetto della canzone è tutto racchiuso proprio nel trovare questo coraggio di fare una cosa così semplice, così fattibile, che alle volte risulta essere quasi impossibile. Crescere, come abbiamo detto, significa conoscersi in maniera sempre maggiore. Ed è qui che entra in gioco la voglia di voler uscire dalla propria zona confort, scoprire, scoprirsi, vivere il mondo, in un’esplosione di colori e suoni. Leggendo un po’ tra le righe della canzone (ahah simpatica questa), si notano queste figure giocose, dei piccoli giocattoli, come le pedine, i castelli in aria, i soldati di carta.
E, ultima ma non per importanza, questa simpatica personificazione, questo soggetto femminile (nel buio distesa in un angolo). Chi è? Non lo sappiamo neanche noi, ma sentivamo l’esigenza di dare volto a questa paura del sentirti chiusi Dentro ad una Bolla.
E allora – per riuscire a toccarla e farla scoppiare – bisogna cercare nuove vie, assumere differenti prospettive, gettarsi in quella mischia, rischiare quella scelta.
Raccontateci un po’ com’è nato il video. L’auto-produzione può considerarsi una scelta di libertà, per uscire dai vincoli di qualcosa deciso da altri che magari cozzerebbe anche contro l’identità del vostro progetto?
Diretto e girato dallo stesso cantante (Giacomo Sasso), il video nasce dalla voglia di personificare questa paura, questa Bolla. Lo facciamo sviluppando questa dicotomia. Nelle strofe si può vedere Alice, protagonista del videoclip, ripresa in una successione di quadretti, delle piccole bolle, in cui si rifugia quotidianamente. Nei ritornelli, seguendo poi le dinamiche della canzone, si vede la stessa far esplodere il sottile muro che la divide con il mondo, rappresentato da una Trieste intrisa dei suoi bellissimi scorci e viuzze.
Può essere considerato una vera e propria autoproduzione, dato che il gruppo si è occupato di tutto, dall’ideazione delle scene fino alla creazione di una community formata dalle varie realtà locali – le quali si sono prestate partecipando al video, offrendo i loro spazi, i loro marchi e prodotti per supportare il progetto.
Il perché di questa scelta? C’è di sicuro il fattore economico (non sempre trascurabile). Ma, ancora più certamente, possiamo dire che l’avere la libertà di tradurre il testo in immagini è un concetto che ci è piaciuto e ci piace molto. È come voler fare una fotografia con una macchina analogica e volerne seguire poi il processo di sviluppo, sino alla fase in cui viene stampata e appesa al muro della propria cameretta. Ci piacerebbe, però, collaborare con altri artisti, videomakers e grafici, anche solo per vedere come esprimerebbero loro in un video le nostre canzoni.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.