“La terza estate dell’amore”, il manifesto dello Stato Libero di Cosmo
Per me, scrivere di Cosmo è una roba dannatamente seria.
L’ho scoperto con una dinamica un po’ perversa, tutta mia: sentire che il nome gira, andare ad un concerto, vederlo salire sul palco dopo averci chiacchierato (ignorando che fosse lui il nome in locandina), rimanerne estasiato per poi consumare, letteralmente, il disco. Il “Disordine” che Marco Jacopo Bianchi ha scatenato nel 2013 me lo sono beccato dal primissimo momento, le sue erano cose (più) rare in quel panorama musicale indipendente. Lo ammetto: Cosmo ce l’avevo in testa ogni santo giorno, ne ero colpito al punto tale che, a distanza di anni, il modo migliore per dichiarare ad una persona quanto la ritenessi importante è stato “beh, penso più a te che a Cosmo”.
…e non so ancora se la gerarchia sia cambiata.
Ciarlando come fossi al quarto gin tonic dopo un inverno in lockdown (ogni riferimento è puramente fatto apposta, direbbe Speranza), tuttavia, c’è anche uno scopo da raggiungere. Torno su Le Rane a gracidare circa l’artista eporediese a circa tre anni dall’ultima volta, per un’occasione decisamente meritevole di attenzione.
Nel mentre di mesi letargici ravvivati solo dall’attività via Zoom di Ivreatronic, il nostro ha inaugurato la sua primavera diventando padre per la terza volta: alla famiglia Bianchi si aggiunge Linda Futura, un nome che è tutto un programma. I richiami sono espliciti a “Balla Linda” (e quindi a Lucio Battisti, omaggiato ai tempi dei primi vagiti cosmici con una cover di “Abbracciala, Abbracciali, Abbracciati”, datata 2012) e Lucio Dalla (altra grossa fonte d’ispirazione, basti pensare a come sono cantate le strofe di “L’altro mondo”).
Il bello di quelle che chiamiamo casualità è l’impeccabile tempismo che le caratterizza
Negli stessi giorni, un happening a sorpresa ha disvelato l’altra creatura di Cosmo, quella che l’ha reso padre (sul versante discografico) per la quarta volta. Impianti audio piazzati al Monk, al Magnolia ed in location geograficamente più impervie hanno diffuso (anche in diretta YouTube) i brani inediti del nuovo disco che ha visto la luce, ufficialmente, il 21 maggio 2021. Non meno importante, il volantino attaccato sulle casse che è rimbalzato sul web: “La terza estate dell’amore” è arrivata così, senza troppi annunci, per una proposta d’ascolto condita da instant-hype e manifestazione d’intenti.
La terza estate dell’amore è un’invocazione, più che una realtà. È una possibilità, ma anche una necessità. Un qualcosa che deve accadere e che prima o poi succederà. […] La terza estate dell’amore è il manifesto di qualcosa che ancora non ha un nome. Un corpo pulsante e desiderante che spruzza il suo sudore sull’etica del lavoro. Un corpo erotico sbattuto in faccia al gelo di morte del capitalismo e della burocrazia; un ballo sulla carcassa di una società incapace di godere e di organizzarsi per essere felice.
Questo è solo un estratto che, per quanto significativo, non sintetizza tutte le implicazioni sociali e culturali che impostano le fondamenta concettuali di questo long play.
Dodici tracce che sono state scritte, cantate, suonate e registrate da Cosmo e solo Cosmo nel suo Cosmic Studio (potere alla fantasia!) localizzato presso la città natale. Lo stesso ha partecipato al mixaggio, curando inoltre l’artwork di copertina, come già successo nelle release precedenti. I credits nei booklet finiscono sempre per dire molto: in questo caso, un atteggiamento da capetto che in realtà è motivato dalla necessità tanto logistica quanto umana di indipendenza nello sviluppare il processo creativo.
A casa mia sono più tranquillo. Riesco a lavorare sereno sui pezzi, senza ansie. Per quanto un fonico possa essere tranquillo, c’è sempre il rischio si stia scazzando ed anche se non lo dice io finisco per risentirne. [via]
Il suono che parte da Ivrea per scuotere lo Stivale, quindi, è fatto in casa come le leccornie di una volta, ma al tempo stesso ripudia qualsiasi stilema di tradizione. Viene messa la museruola a tutti i campi dell’elettronica: non è lo studente che ha imparato a menadito il programma dell’esame da 12 CFU, è quello che ha fatto un percorso tortuoso, arrivando a possedere gli argomenti, a farli propri per manipolarli a piacimento. Cosmo è a suo agio, ha costruito un registro espressivo dove la componente testuale è nuclearizzata, ridotta a frasi minime, a singole parole che fungono quasi da keyword attorno cui gira il testo.
Dum dum, l’Inno Nazionale è solo batteria
Si parla chiaro dalla open track.
Rispetto alle drum machine e ai pad, le preferenze ritmiche rimbalzano su tamburi, percussioni, piatti, fischietti e chi più ne ha più ne metta: una sarabanda che non si presta a sciapido tribalismo, ma è un effettivo ritorno alla forma musicale più arcaica. È quel tum-tum-tum-tum sul pentagramma che ci accompagna per questa intera, corposa, ora di ascolto.
Qualcosa, a suo modo, di sciamanico e trascendentale.
Chiodo: pattern ritmico in 4/4 costante e uniforme [Wikipedia]
Non c’è altro modo per definire un impianto così solido e martellante. L’andamento cadenzato spara a zero sulla società (“Fuori”), sul music business (“Antipop”); sulla percezione della musica da parte dell’opinione pubblica affermando la propria identità attraverso il corpo (“Io ballo”). Qui il personale è politico, nella sua esemplificazione (a mio modo di vederla) più brillante: un essere umano, prima ancora di un artista, espone le proprie idee, dando pareri su cosa non gli va a genio. In quanto cuore pulsante, non prescinde dalla narrazione dell’amore per chi gli sta accanto (“Fresca”) e dal rapporto con la sua progenie (“Gundala”).
Dev’essere davvero figo vivere la paternità come Cosmo: otto anni fa “Esistere” era la più bella dedica da fare ad un figlio in arrivo, oggi il piccolo Carlo Adriano si trova a canticchiare meglio che può il ritornello di quella traccia spaziale (con la partecipazione di Bawrut) che è “Mango”. C’è posto per le esperienze sensoriali in “La cattedrale”, l’invocazione pagana alle divinità nella mistica “Vele al vento”, il disagio del post-moderno esorcizzato da “Puccy Bom”.
Gatto randagio, ma in gabbia chic
Elencare tutto quello che suona come i pezzi di “La terza estate dell’amore” sarebbe banale masturbazione giornalistica
Voglio giocarmi un singolo collegamento: Populous. In diversi frangenti torna un sapore mediterraneo che mi ha riportato alla mente le raffinate fascinazioni portoghesi di “Azulejos”. Anche il producer salentino avrà percepito qualcosa, siccome si è prodotto sui social in questo commento.
Parole precise, che tributano onore alla traccia che fino ad ora ho volutamente tralasciato: “Noi” è il colpo da maestro lasciato in chiusura, il congedo che incornicia le forze eterogenee di questo sforzo creativo. Canto dell’umano che si ricongiunge alla natura, delle diversità che finiscono per ricongiungersi in una matrice indentitaria primordiale.
Disarmante e devastante al tempo stesso.
Sono un mistero custodito nel bosco
Sono te, che nemmeno ti conosco
Un parere su “La terza estate dell’amore”
Quello che abbiamo fra le mani nei più svariati formati è un disco bello dal primo sample vocale fino all’ultima nota emessa dalle tastiere, quando la pressione delle dita si allenta e resta solo il riverbero delle note.
Alzi la testa. Respiri. Pensi che è stato un bel viaggio.
Cosmo dimostra quanto sia diverso e distante “fare pop” da “essere pop”: con il suo gusto e garbo artistico, riesce a sperimentare senza perdere carisma magnetico. È goduria per i timpani e per la mente, per quello che comunica e come decide di esprimersi. Dopo l’happening di anteprima del disco ho letto ben più di un commento che affermava, con entusiasmo che “questo album è un passo avanti Cosmotronic”.
Ma per favore.
Rispetto a tre anni prima, musicalmente si fa un passo a sinistra con la finta che stai andando a destra (per citare Battiato, altra grande fonte d’ispirazione di Cosmo); dalle atmosfere da club si passa a qualcosa di più maestoso, a suo modo più inclusivo e universale. È come se fosse in atto un Cosmopride, una manifestazione d’orgoglio di cosa riesce a produrre l’estro di Marco Jacopo Bianchi nell’ottica della condivisione e delle sollecitazioni alla collettività, passando per la coscienza dei singoli. Mi piace pensarla così.
Se chiudi gli occhi, riesci anche tu ad immaginare questo enorme soundsystem, ricolmo di colori, trionfo di umani sentimenti, uguaglianza e vita che gira l’angolo con una canzone che fa:
Badabango, un gelato al mango
Poi magari cambio, e mi mangio te, na na na na, eh