Forme complesse esce il 28 febbraio 2021 a distanza di quattro anni esatti dal precedente lavoro dei FBYC, Il numero sette. Disponibile solo su Bandcamp (link sotto la copertina qui di seguito) ad un prezzo ridicolo, era stato annunciato pochi giorni prima ai fans tramite la newsletter dedicata. Tutto molto diretto, tutto molto pulito. L’eliminazione degli intermediari fisici ed emotivi è un marchio di fabbrica spesso analizzato e condiviso della band milanese: è scritto in diverse recensioni e lascio ad ognuno di voi il giudizio e l’interpretazione. D’altronde scrivere una recensione di un album uscito quasi sei mesi fa diviene molto difficile se l’obiettivo è stupire e sconvolgere.
La purificazione, l’obiettivo dell’eliminazione degli elementi negativi (o considerati tali) è una delle prime attività apprese dall’essere umano. È legata a doppio filo alla religione, alle strategie sociali. La catarsi rappresentava un momento di estrema importanza, l’elevazione verso qualcosa di Superiore e/o l’allontanamento dalle prospettive parziali e imperfette del mondo.
L’uomo elabora un proprio percorso, tramandato da complessi rituali che lo cambiano nel profondo. La sua interpretazione del mondo è essa stessa una interpretazione perfetta poiché inimitabile. Le forme complesse, le sovrastrutture della vita e del suo scorrere impetuoso vanno lette come uniche ed inimitabili per quanto temporalmente limitate.
“Forme Complesse” è la purezza della tempesta. La tempesta a cui nessuno può sottrarsi, l’imprevisto a cui nessuno può abituarsi. È la storia dell’uomo, è la storia dei nostri mesi.
La vita raccontata in Gittana, opening track, la riflessione sul rapporto simbiotico e complesso tra individuo/comunità è lo specchio dei nostri giorni. Il desiderio di un letto singolo, culla e rifugio in cui poter abbracciare qualcuno senza distanze. Gli sbagli che diventano consigli, la possibilità che l’inverno possa non essere solo tempo di malanni.
“Vorrei vuoti da non dover riempire mai” è necessità e tormento. È il verbo volere, ricco di possibilità intrinseche e che sfiora il vuoto. I progetti inespressi, quelli che ci tengono in vita.
Vivere è purificarsi, purificarsi è vivere. Il percorso, il respiro impresso in ogni singola nota è un rituale sacro e sporco.
“L’infido abbraccio delle aspettative rispetto al tuo era tepore, una secchiata di acquaghiaccia”. Si chiude così la seconda traccia. Tagliente, chirurgica, fulminea. Il demone della solitudine e la palliazione della solitudine. Il non sapere dove appoggiare il cuore, il sapere che potrebbe essere tutto inutile e l’urto sordo da dover poi affrontare.
Cogoleto è una traccia claustrofobica. L’individuo che oscilla tra l’intrinseca solitudine (il vomitare) e il suo essere immerso nelle sovrastrutture sociali/abitative. Il pensare a cosa potrebbe essere il destino di quell’anima in pena e la preghiera affinché si addormenti e plachi il suo dolore. Da ascoltare senza mordersi la lingua.
Forme complesse esplode quasi in silenzio, rivelando tutta la sua abominevole normalità.
Pochi voli pindarici, pochi spazi per metriche geograficamente distanti. Le prime tre tracce accompagnano l’ascoltatore ovunque: l’analogia con la tempesta resta valida. Dovunque saremo, riusciremo a inzupparci.
Piano impreciso: “Che era tanto ormai che mi chiedevo ma tutto questo agitarsi alla fine a che pro”. Tanto basterebbe a rendere questa traccia tragicamente unica. È la narrazione dell’essere umano destrutturato: senza nome, senza punti fermi. Tutto è superfluo, tutto è ciarpame fisico. Il fuoco che brucia senza riscaldare l’anima. Traccia cupa: non nell’ascolto ma nel post-ascolto. Quando cala la notte, quando la città dorme e tu hai voglia di vivere.
Forme complesse non è solo la traccia che riassume il disco. Termina con una domanda come la traccia precedente. “L’avresti mai detto che sarebbe stato così?” Tale frase è un sottotitolo per tutto il lavoro: il senso di soffocamento e soggiogamento della vita è mutuato da Cogoleto e Acquaghiaccia. Si assiste ad un senso di apprendistato emotivo che pervade ogni nota, ogni inclinazione della storia.
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Interludio con vento è la mia traccia preferita. Testo extrasistolico, riuscita come ogni sguardo oltre il proprio orizzonte. Sono i FBYC, uno dei motivi per cui dedichiamo loro degli articoli. La purezza della tempesta.
Intorno chiude il disco. Contiene una delle frasi più ricopiate del disco, più amate dai post di IG e più virtualmente tatuate dai fans: “Ora che ti senti persa lascia solo che ti segua. Non importa quanto intorno gireremo. Non abbiamo ancora perso”. Come una preghiera, una bestemmia, una carezza.
Non abbiamo ancora perso. Termina con questa cieca speranza il racconto di vita di Forme Complesse. Termina un disco necessario. Necessario a rileggere questi anni difficili, necessario per l’età di mezzo dei post-30, necessario per capire che non tutto è playlist/stream.
Riascolteremo queste tracce quando tutto sarà crollato, quando abbozzeremo un mezzo sorriso. È la purezza della tempesta di cui non conosciamo tempi e modi. Abbiamo davvero voglia di difenderci?
Foto in copertina di Mayastar su Flickr, scattata il 28 settembre 2010