“Kuni” è l’esordio sulla lunga distanza di LNDFK. Un lavoro dal taglio internazionale che va oltre le etichette. LNDFK (Linda Feki) è riuscita a trasformare in musica sensazioni arrivate dal cinema, dalla poesia, dalle arti figurative oltre che dal profondo del suo animo, per realizzare dieci tracce sorprendenti. Ne abbiamo parlato con lei per andare oltre i titoli, fino all’essenza di questa sua ricerca.
L’idea che mi sono fatto ascoltando il disco è che hai creato un tuo spazio sonoro, arredato con la tua identità, accogliente come una casa, in cui poi far entrare prima gli altri artisti che hanno collaborato e poi tutti quelli che lo stanno ascoltando.
Wow, grazie mille. “Kuni” è a tutti gli effetti un disco che attualmente mi definisce come artista e come essere umano. Ho sempre immaginato “Kuni” come uno stato d’animo, ma l’idea di considerarlo una casa mi piace moltissimo. Ho l’abitudine di trasferirmi ogni anno in una nuova città. Mi sono da sempre percepita senza radici e le uniche che sento possibili le ritrovo in quelle che poi finiscono per diventare le mie “influenze artistiche”.
Nonostante si tratti del primo disco, mi sembra che ci sia, anche rispetto al precedente Ep, un percorso di ricerca inizialmente interiore, che ha afferrato dalle suggestioni dal cinema (Hana-bi, Takeshi) e dalla poesia (Sanguineti) per riversarle poi nella musica, come se i tasselli per far quadrare il puzzle fossero stati presi oltre l’ambito strettamente musicale, che percorso è stato? Perché quel film in particolare ha fatto scattare la scintilla?
Il mio modo di scrivere è cambiato radicalmente nel tempo e “Kuni” rappresenta, infatti, un punto di evoluzione, sia artistico che personale. Con “Kuni” ho deciso di rivoluzionare il mio approccio creativo. Prima di questo disco lasciavo che ad ispirarmi fosse la musica, e la ricerca era orientata ad un sound che assomigliasse il più possibile a quello che ascoltavo. Quello che ho trovato finiva per emularlo. Seppure il vecchio processo mi garantiva più sicurezza, ho sentito l’esigenza di cambiare direzione.
Fermarmi mi ha portato ad elaborare che le cose che producono una maggiore risonanza in me non sono legate alla musica, e che la poesia, l’arte figurativa, e il cinema mi ricollegano in modo più diretto alle mie esperienze e che riesco a tradurle in un linguaggio sonoro con più sincerità. Il punto di svolta corrisponde alla visione del film “Hana-bi”. Quello che mi ha sedotto dell’estetica giapponese, e nel cinema di Kitano, è la capacità di porsi sul confine tra vita e morte, bellezza e decadenza.
L’aspetto legato all’amore e alla morte si presenta anche nelle opere del fotografo Nobuyoshi Araki e mi piace come il simbolo del fiore connetta i due artisti e si ponga come una sorta di manifesto della loro arte. Ho cercato di proseguire la stessa strada, con tutti i canali possibili (concept, video teaser e artwork). La dicotomia che c’è tra delicatezza e violenza, come se la bellezza non possa esistere separata dalla disperazione, è un aspetto che ho riconosciuto come familiare e che dopo la scena del film in cui appaiono i fiori, opere di Takeshi stesso, ho deciso di approfondire.
Difficile definire un genere di appartenenza per la tua musica, e questo credo sia un pregio indiscusso del lavoro. Si percepisce una grande libertà di sperimentazione, forse raccogliendo in questo approccio e in questa libertà, la grande lezione del jazz, inserendo poi delle continue incursioni in territori sonori che vanno dall’elettronica all’hip hop, con qualche venatura trip hop, fino alle colonne sonore cinematografiche e al modern soul. Mi pare si vada oltre le etichette, anche la definizione di nu-jazz o neo-soul, per quanto vicina, non rende pieno merito alle dieci tracce. Tu come definiresti questo lavoro?
Non sono interessata a trovare una definizione univoca del mio lavoro. Lo sento molto personale, e questa cosa, qualora ce ne fosse bisogno, più di ogni altra, credo lo rappresenti e lo categorizzi. Musicalmente “Kuni” è sicuramente un disco ibrido, in cui coesistono delle parti organiche e prodotte, o meglio le componenti acustiche si fondono a quelle elettroniche. È una dicotomia che deriva, più che da un approccio puramente compositivo, dall’identità che sostiene il disco, che è legato ai concetti di Eros e Thanatos. Non ha molte influenze musicali, se non le più evidenti, tra cui il mondo di Brainfeeder, quindi Flying Lotus, gli Hiatus Kayiote; e diciamo tutta la scena dell’abstract-beat, neosoul, e le singole influenze che abbiamo io e Dario Bass, con il quale ho scritto, prodotto e arrangiato il tutto.
Parliamo un po’ del taglio internazionale del disco. Tu sei molto legata a Napoli, ma frequenti e conosci bene anche altre capitali e altre culture; quindi, immagino che un orizzonte più ampio faccia parte di base del tuo sguardo musicale, ma poi come si arriva a collaborare con etichette svizzere, come nel caso del primo ep e poi a una uscita con doppia etichetta italiana (La Tempesta) e americana (Bastard Jazz)?
Ho sempre cercato di confrontarmi con una panorama internazionale. Nel caso di Bastard Jazz, mentre stavamo ultimando il disco, abbiamo consegnato al nostro management una lista di etichette che seguiamo, e siamo molto soddisfatti di avere trovato un accordo con loro, hanno intuito le potenzialità del progetto e ci stanno supportando molto, così come sta facendo La Tempesta per il mercato italiano.
Le collaborazioni presenti nelle varie tracce sono molto diverse tra loro, intriganti e di livello. Come ci sei arrivata? Sono state scelte precise rispetto alle sonorità che stavi cercando?
È stato molto importante per me poter collaborare con Chester Watson e Pink Siifu; soprattutto aver deciso di coinvolgerli nei brani “Don’t Know I’m Dead or Not” e “How Do We Know We’re Alive”, i pezzi in cui rappano. Sono due brani speculari e fortemente simbolici, connessi al fenomeno della depersonalizzazione e a quello dissociativo. Per me era necessario rendere la tematica universale, trovando artisti che con la loro voce potessero rendere cruciali le sfumature dei due brani. Così come per l’identità con cui nasce il disco, anche nel caso delle collaborazioni, tutto è stato molto naturale, assecondando quello che la musica mi stava suggerendo. Conosco Jason Lindner personalmente da diversi anni, è un’artista che stimo moltissimo e che ritengo di una versatilità incredibile, così come Asa-Chang, per me un vero e proprio genio e una personalità artistica che consiglio a chiunque di approfondire.
La collaborazione con Dario Bass, va avanti da anni. Siete entrambi soddisfatti del risultato raggiunto con “Kuni”, nel senso, è la direzione che tutti e due cercavate?
Con Dario ci conosciamo e collaboriamo ormai dal 2013, siamo cresciuti insieme e ci siamo influenzati moltissimo umanamente ed artisticamente. Per dire, il film di Kitano lo abbiamo visto insieme. Credo che la decisione di attingere a degli elementi assoluti, di spostarmi da un piano soggettivo e traducendo qualcosa di personale in qualcosa di universale, facendolo appunto passare per riferimenti tangibili, come le opere di Takeshi e altre fonti, abbiano reso i riferimenti più chiari ad entrambi e per questo inequivocabili. Questo processo è stato la chiave che ci ha permesso di collaborare molto meglio di come avessimo sperimentato in precedenza.
Concludo con una domanda sul futuro. Cosa dobbiamo aspettarci dai live? In quelli passati a cui ho avuto la fortuna di assistere c’era una grande anima jazz di base, ancor più che sulle tracce registrate in studio; questa volta, ascoltando il disco si possono immaginare varie situazioni, anche maggiormente “sperimentali”, forse anche a seconda della formazione che sceglierai di portare sul palco.
Essendo un disco ibrido, dove coesiste l’acustico e la produzione di beat, l’analogico e l’elettronico, stiamo lavorando su diverse declinazioni: in trio e in quintetto per il momento, ma potrebbero aprirsi anche nuove strade. Inizieremo il tour quest’estate, abbiamo già annunciato alcune date, e altre ne arriveranno, sia in Italia che all’estero, e non vedo l’ora!