A dieci anni dall’uscita di “Auff!”, i Management ci portano nella capitale della loro dialettica e delle loro sensazioni degli ultimi due anni, che poi, sono anche le nostre. Esce oggi “Ansia capitale”, il loro nuovo lavoro discografico, e qualche giorno fa siamo stati a Bologna per il secret concert di presentazione.
“Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore” – canticchio nella mia testa mentre mi avvicino al locale – che tanto, mi viene da dire al piccolo Nino, come ci insegnano i Management, se la vita è uno sport, non siamo sicuramente dei campioni.
Il concerto è stato annunciato qualche ora prima e viene riservato solo ai pochi fortunati, per la precisione cinquanta, che scrivono in tempo ai Management sul loro profilo Instagram. L’aria nel locale si riempie di entusiasmo e qualche canzone del nuovo disco viene suonata in anteprima per il piccolo circolo esclusivo, o per meglio dire, veloce nella visualizzazione.
“Ansia capitale” esce durante l’anno del decimo anniversario di “Auff!” e segna un punto d’incontro tra passato e futuro della band, in quanto, da un lato condivide con il disco d’esordio lo studio di registrazione Natural Head Quarter a Ferrara e dall’altro annuncia l’ingresso del gruppo nell’etichetta discografica Garrincha Dischi.
Il disco si presenta come un’ulteriore immersione nel linguaggio proprio dei Management che rivendicano il diritto di essere i perdenti, i villani. Così, compiono un atto di protesta verso il meccanismo che ci vorrebbe tutti produttivi ed efficienti, lasciando alle nostre spalle la capacità di essere toccati dal prossimo e di empatizzare col dolore altrui.
Gli otto brani che compongono l’album, infatti, attuano un gesto di disobbedienza e un sedizioso romanticismo in cui si grida, si manifesta e si sottintende una rottura definitiva con la società della performance e l’amore da supermercato riducibile a schemi e abitudini condivise. L’immagine restituita è un urlo che ferma la scena, in cui tutte le comparse, i personaggi e gli oggetti fluttuano in fotogrammi che preannunciano lo schianto e la caduta. Questo particolare sentore è reso in maniera precisa da Bennet Pimpinella che si è occupato della copertina del disco.
Abbiamo deciso, quindi, di chiedere direttamente a Luca Romagnoli, voce dei Management, cosa è cambiato da “Auff!” a oggi e quali siano le loro “Ansie capitali”.
Dieci anni dall’uscita di “Auff!”, cosa differenzia i Management del 2012 da quelli di oggi?
Siamo più vecchi! Nella mente non mi sembra cambiato niente. Per quanto possa cambiare l’atteggiamento o la scrittura delle canzoni, poi saliamo sul palco sempre allo stesso modo. Ci piace quell’energia, ci piace suonare così, anche un po’ per sfogo.
Come rivendicate “il diritto di essere dei perdenti” nel vostro quotidiano e sul palco?
Ma guarda, la modalità tra quotidiano e palco è la stessa. Per “essere perdenti” intendiamo l’essere al di fuori del modello vincente dei belli, dei ricchi, dei piatti gourmet, dei vestiti. Poi se ci pensi, non tutte le questioni artistiche, soprattutto quelle musicali, dopo dieci anni sono ancora lì. Magari tanti di questi piccoli momenti di successo alla fine durano poco e non significano niente, quindi contrariamente alla domanda che mi hai posto, è una vittoria il fatto che dopo dieci anni ci siamo ancora, abbiamo ancora cose da dire, abbiamo ancora uno stile e anche un pubblico.
Luca, sei voce e autore delle canzoni dei Management. In “Ansia Capitale” fai riferimento ad un grande buio interno, quali sono per te i buchi che ingoiano tutto quello che ti circonda?
Sono sempre stato tendente alla malinconia perché mi aspetto di più dalla vita, dalle persone. Trovo una mancanza di poesia, e forse, in parte, anche di una certa capacità di linguaggio. Le parole stanno scappando, la semplificazione della vendita, la “domanda-offerta” porta ad eliminare la difficoltà e la bellezza del linguaggio. Se sapessi cosa sono questi buchi, avrei risolto il problema, non avrei scritto.
I dischi prima di “SUMO” li avete definiti come frutto di un’urgenza espressiva. Di cosa è figlia “Ansia Capitale”?
Ci giro un po’ attorno: in questo disco, la parola “amore” non è mai presente. Ho evitato a tutti i costi di dirla o, se l’ho detta, era per intendere un’altra cosa che mi interessava di più. Infatti questo, è un disco di critica, anche piuttosto urgente, ma di un’urgenza immobile proprio perché è stata scritta durante il periodo del lockdown.
Quando vedi una mancanza di tutto intorno a te, nasce un bisogno di amore, di legame, di prendere una persona e di urlarle in faccia di dire qualcosa di suo. L’ansia relegata a un periodo come quello che abbiamo vissuto è tutto il perno sul quale abbiamo lavorato, una solitudine che non crede di essere mai sola, sempre connessa con qualcosa che poi, se vai a vedere, la amplifica. Anche se le tapparelle sono abbassate, c’è questo mondo al di fuori, con il quale noi siamo connessi, ma solo attraverso il mezzo tecnologico, mai col cuore.
Vi definite “Poeti provinciali da Lanciano”. Esistono per voi emozioni da provincia e emozioni da Capitale?
Credo che nella metropoli quello che si può definire poesia va comunque alla velocità della metropoli, sempre in movimento. La provincia è più contemplativa, cambia sempre molto poco ed è più legata alle solite domande che l’uomo si pone da sempre: la vita, la morte, i figli, l’amore, che mangiamo stasera. Però quando si crea un blocco totale, come quello della pandemia, tante persone hanno sognato di stare in provincia. L’umanità si è sviluppata come specie ultra tecnologica e scientifica, ma l’uomo, preso singolarmente, se si ritrovasse in un bosco non saprebbe accendere un fuoco. Siamo molto peggiorati. Noi della provincia siamo ancora vicini ad un’idea contemplativa della vita, e un fuoco comunque lo sappiamo accendere.
Con i precedenti dischi avete iniziato un processo d’introspezione, possiamo dire che con questo ultimo album raggiungete la capitale delle vostre emozioni?
Sì, forse è così. Penso che, dopo tutta questa introspezione, il lavoro per il prossimo disco sarà un po’ più di sfogo, senza troppo pensare. Una cosa che io e Marco facciamo per scelta è quella di concentrarci sulle emozioni di un periodo. Infatti, spesso i dischi sono molto vicini ad un’emozione e una sensazione che poi andiamo a lavorare. “Ansia capitale” è anche questo, però è visto su più livelli: ironico, rabbioso, menefreghista, malinconico.
Parliamo di “Bastatutto”, contro cosa gridate “Basta” oggi e a cosa non lo avreste detto dieci anni fa?
Forse gridiamo “Basta” alle stesse cose. Nella canzone la lista è abbastanza lunga e sicuramente abbiamo dimenticato qualcosa. La risposta è nel titolo: tutto, tutte le cose ridondanti. Tutto diventa un giochino. Quindi ecco, un po’ di tutto si può pure sopportare ma all’infinito non se ne può più.
“Un mondo al veleno” parla delle quotidiane ipocrisie a cui tutti assistiamo o sottostiamo. Da cosa partireste per costruire un posto in cui potremmo stare meglio?
Penso che la prima cosa debba essere l’uguaglianza. Inutile parlare di questioni giganti se poi ognuno ha possibilità diverse, sia naturali, perché la natura è ingiusta, sia economiche che sociali. Sappiamo che questo è un mondo nel quale molte persone hanno molte più libertà di altre e il loro modo di rifarsi alla realtà è completamente diverso. Sì, ci vorrebbe un po’ di uguaglianza.
In questo disco attuate una critica aperta a quelli che sono abitudini e comportamenti odierni. Definireste la vostra musica puro cinismo o una protesta musicale consapevole?
Un po’ di cinismo, giusto per gioco, c’è. A volte, come dire, potremmo essere anche un po’ più accondiscendenti verso le cose che vediamo. Abbiamo il privilegio di vivere in una zona geografica che riesce a guardare i problemi dell’umanità abbastanza dall’esterno e quindi, riesce consapevolmente a farsi un’idea, senza per questo entrare dentro al tritacarne dell’invidia.
In questo viaggio dalla provincia della nostra sensibilità fino alla metropoli delle ansie condivise, ci troviamo ormai fermi davanti al monumento delle nostre nevrosi. Un disco, “Ansia capitale”, che mette davanti agli occhi le fratture di un organismo che non ci rappresenta più e del quale vogliamo liberarci. Tocchiamo, così, il punto più profondo del processo d’introspezione dei Management che ci spronano a lasciar cadere le preoccupazioni legate al successo per tornare a toccarci fisicamente e emotivamente.
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