Per noi contano i dischi, i bagni nel mare, l’umanità: 10 anni di Sei tutto l’indie
Sei tutto l’indie di cui ho bisogno compie dieci anni.
Sarebbe riduttivo definirla community (termine che non ho mai amato). Nella mia testa è piuttosto un conglomerato di anime e artisti capace di seguire e anticipare mode, modalità e stati d’animo della cornice “indie”. Un ponte ammazza distanze, un porto sicuro dove ritrovare birre artigianali e vini di classe. Fatto sta che, con qualsiasi etichetta la si voglia classificare, festeggia se stessa a Roma, al Monk il 27 ottobre.
Dieci anni son tanti? Son pochi? Lo abbiamo chiesto ai due fondatori, Giuseppe Piccoli e Gian Marco Perrotta. Un prima, durante e dopo di questi dieci anni. Una mappa concettuale e delle parole chiave per dieci anni di big data musicali.
Prima
Iniziamo con la madre di tutte le domande. Come nasce Sei tutto l’indie? E perché?
Sei tutto l’indie nasce per gioco, per noia e per poter evadere da 50 metri quadri a sud di Roma durante una partita a PES. L’idea è sempre stata quella di riunire una nicchia di persone con la voglia e determinazione di scoprire, sperimentare, condividere e dar voce a qualcosa che fino a quel momento era sconosciuto o poco considerato.
Tre dischi per comprendere l’indie italiano.
Le luci della centrale elettrica – Canzoni da spiaggia deturpata
Giovanni Truppi – Il mondo è come te lo metti in testa
*Bonus* 24 Grana – Ghostwriters
Un aneddoto divertente che vi ha fatto capire che era la strada giusta
Da quando iniziò a seguirci Jovanotti su Facebook. No, scherziamo, andando in giro alle presentazioni dei dischi, concerti, primi accrediti, le amicizie e i rapporti con tanti artisti che ci seguivano, la gente che ci diceva di seguirci che incontravamo ai concerti: era bello sapere che in un modo o nell’altro si stava parlando di noi.
Durante
Gli inevitabili incidenti di percorso: il mercimonio delle playlist, i falsi uffici stampa, le false speranze
Tutto è cominciato con “Mainstream” di Calcutta e il decollo nazionale della “scena romana” insieme a I Cani e soprattutto Thegiornalisti. L’indie è diventato un fenomeno nazionale, la musica degli “sfigati” che ora andava di moda e assumeva paradossalmente una rilevanza commerciale e quindi economica, creando piccoli e grandi giri di affari e copie delle copie delle copie di artisti che per una scena che già dopo pochi anni non aveva più nulla di nuovo da dire.
Insieme a Spotify che dava la possibilità a tutti di esserci, tutti hanno pensato di potercela fare. Così sono nate playlist a pagamento per “dopare” i numeri, uffici stampa che promettono visibilità su siti che non legge nessuno creati ad hoc o che scrivono le interviste per i loro “assistiti” o che scrivono essi stessi articoli finti, etichette discografiche che lavorano su grandi numeri. Il tutto appeso ai sogni di piccoli artisti. Si è trattato di una bolla, che ci ha fatto dimenticare la genuinità e l’istintività della vera musica indipendente ma che ormai si è per fortuna quasi del tutto dissolta.
L’impatto della pandemia, senza banalità.
In questa bolla in cui ha trionfato l’esaltazione dell’effimero, dei numeri digitali Spotify spesso dopati dalle playlist a pagamento o dalle scelte di una manciata di curatori delle playlist editoriali l’unica cosa che faceva la differenza erano i live, che riuscivano ad assegnare un peso specifico reale e progetti e fanbase. Con la pandemia il mondo dei live è entrato in crisi.
Quello dei grandi eventi si sta pian piano riprendendo ma c’è stata la grande crisi dei circuiti (live club e festival) “medi” che per anni hanno contribuito a fare da trampolino di lancio e teatro di gavetta per tante realtà che sarebbero poi cresciute fino ad arrivare alla meritata ribalta nazionale.
Playlist, plastica, pandemia: quale è il ruolo dei social in un mondo che stava cambiando?
I social hanno contribuito tanto al cambiamento ma hanno anche ridotto sempre più la soglia dell’attenzione: inizialmente c’erano i video YouTube, poi i post su Facebook, poi le foto su Instagram, ora i video di TikTok. In tutto questo il tempo che la nostra mente dedica a ogni singola canzone, unita alla quantità incredibile di musica a disposizione attraverso le piattaforme digitali si è ridotto allo status del “Consuma e dimentica” e al dover studiare ogni mossa per essere premiati dagli algoritmi più che dai cuori delle persone. Per fortuna c’è chi cerca di combattere e andare oltre queste regole del gioco e oggi essere indie è anche questo.
Dal lato promozionale i social sono diventati uno strumento davvero potente soprattutto nella metà degli anni Dieci quando tra meme e community si creavano delle fanbase reali, decisive e creative. Poi tutto si è appiattito sotto quel punto di vista ma restano un luogo importante per divulgare nuova musica, per parlarne (insieme ai podcast) e uno strumento potente per farsi conoscere e creare una fan base da capitalizzare (ci si augura) offline.
Dopo
Quello che tutti vogliono sapere: L’indie è morto?
Questa affermazione ci fa sempre sorridere, ci sembra una conseguenza superficiale della convinzione che l’indie sia solo quello “mainstream” derivante dalla scena romana senza considerare quello che c’è stato prima e quello che c’è dopo. Ma soprattutto l’indie non è un genere ma un approccio, che deriva dalla curiosità di scoprire ossessivamente musica nuova, attraverso canali “indipendenti”. È la voglia di condividere: “Hey, senti un po’ cosa ho scoperto”, è la voglia di dire qualcosa ma in maniera diversa.
Rispetto a qualche anno fa c’è meno aggregazione, ognuno resta nelle proprie stanze, ma questo è una conseguenza del cambiamento della società. Indipendenza, curiosità, condivisione, sono tre pilastri che nella musica non possono morire. Noi li sentiamo ancora, altrimenti non saremmo sopravvissuti ai cambiamenti di dieci anni.
Come sarà sei tutto l’indie tra dieci anni?
Un podcast di vecchi saggi che parlano con giovani poco conformati.
Non si vive di solo indie: il ruolo degli investimenti nel settore cultura
Gli investimenti nel settore cultura sono deboli ancora di più se si parla di musica indipendente. Il governo, ma anche le singole amministrazioni, i privati dovrebbero creare circuiti di investimento per incentivare forme di aggregazione tra chi ama la musica in veste di musicista, autore, producer, grafico, videomaker, fotografo, appassionato di marketing, investitore, tecnico, per creare delle scene geograficamente ben localizzate con la consapevolezza che il futuro sarà fatto di collettivi più che di band/artisti, poiché il mondo è diventato molto “fluido” sotto questo punto di vista. Solo un’azione integrata tra pubblico e privato, una visione di lungo periodo, una mentalità al passo coi tempi possono rendere gli investimenti sensati ed efficaci.
Domani (bonus)
Se dovesse nascere oggi “Sei tutto l’indie”, come si chiamerebbe e perché?
Mainstream. Sia per dar voce al disco che ha cambiato le regole del gioco e sia perché l’industria musicale va sempre più veloce e questo un po’, ci fa paura.
Parole chiave: nicchia, Giovanni Truppi, Jovanotti, bolla, effimero, consuma, curiosità, aggregazione, mainstream.
L’intervista inizia con nicchia e termina con mainstream. È un po’ la metafora, virtuosa o meno, di questi dieci anni di indie italiano. Dalle 40 persone al Circolo degli Artisti agli stadi, al Circo Massimo. Curiosità certo: chi è Contessa? Cosa è il post punk? Un pubblico trasversale, incoerente e incomprensibile ma l’aggregazione che li faceva sentire simili. Jovanotti che canta con Calcutta e Tommaso Paradiso mentre Giovanni Truppi canta a Sanremo: cosa siamo? Cosa siamo diventati? E così tutti a celebrare la morte dell’indie, la bolla dell’effimero. Le playlist comprate, le canzoni tutte uguali, il consumismo dilagante manco fossero calciatori. Rileggeremo questa intervista, queste parole chiave ognuno a modo suo: per alcuni sarà la fine di un sogno, per altri la creazione di altri. “Sono tutti commerciali”, “i Thegiornalisti e i Canova non esistono più”.
Hanno tutti ragione (cit.)
Ci vediamo al Monk venerdì 27 ottobre [link evento]