Paolo Benvegnù ci dice perché “È inutile (ed essenziale) parlare d’amore”
“La mia vita è stata una lunga e delicata gara di equilibrio fra l’azione gratuita e inutile attraverso la quale perseguivo l’ideale della mia gioventù e una specie di prostituzione onorevole che mi assicurava il pane quotidiano. Quale spirito volgare oserà pensare che la prostituzione utilitaristica abbia più valore delle imprese gratuite? Nel nostro mondo anarchico e sovrappopolato, quanti possono vantarsi di essere veramente utili?”. Scriveva così, nel 1961, l’alpinista francese Lionel Terray, il quale non solo considerava gli alpinisti “I conquistatori dell’inutile” – titolo eloquente del suo libro di memorie – ma anche, quest’inutile, come qualcosa di profondamente essenziale. E forse proprio per questo mal visto ai più.
Anche i filosofi possono risiedere in questa categoria di vani conquistadores odierni, così come gli amanti, i poeti e i musicisti, magari pure i bambini. Ma c’è anche qualcosa di assolutamente indispensabile in ciò che appare inutile, come ci svela e rivela l’ultimo disco di Paolo Benvegnù, “È inutile parlare d’amore“, uscito lo scorso venerdì per Woodworm.
“Mi commuove che tu abbia trovato un parallelismo così bello e alto. – commenta Benvegnù – E mi sembra anche che l’affermazione di Terray abbia molto a che vedere con quello che intendevo io nell’album: se parlare d’amore è inutile, io voglio proprio perdermi in questo inutile”
“Inutile” è un aggettivo che, nel tuo caso, si accompagna all’amore e ai discorsi che intendono affrontarne il tema. Ma un’amore inteso come qualcosa di inutile è tanto più libero quanto più incondizionato: forse gli unici capaci di un sentimento così totale sono i bambini, il cui incanto è ben presente in un brano del tuo nuovo disco, “L’oceano”.
Sono padre di una bambina di sette anni e il suo stupore, il suo amore verso le cose, è davvero poco condizionato grazie proprio a quella positiva mancanza di esperienza che, nel mondo adulto, non si ritrova più. Paradossalmente, ho come l’impressione di averlo ritrovato questo stupore anche grazie a lei, il che si traduce in una forma di amore senza pregiudizi.
Un atto di libertà da fare, praticare e vivere.
Volendo tracciare una similitudine, anche la dedizione verso una divinità è in fondo caratterizzata esattamente da questo tipo di amore incondizionato. Un amore che muove e smuove l’irrazionale e che non apporta un beneficio tangibile o utilizzabile, perlomeno non secondo i canoni dell’oggi. Penso che questa sia una delle ultime cose che la nostra società riuscirà a controllare o a condizionare: la capacità di avvicinarsi all’irrazionale, di immaginare una realtà altra utilizzando strumenti così poco canonici, come la meraviglia, lo stupore e la fantasia.
Partendo da questa tipologia di stupore, e di amore incondizionato, il tuo disco è quasi un appello a credere nell’impossibile. Un impossibile che si può ancora armonizzare con il reale, anche se il nostro mondo sembra aver perso l’abilità di saper trovare una certa trascendenza nella concretezza del quotidiano. Perché non ne siamo più capaci, secondo te?
Si tratta di un problema che ha a che fare con il nascondimento e l’assenza. Il nostro mondo ha messo in atto la scomparsa del dolore, della finitezza e della morte, a meno che non siano dettati da esigenze di spettacolarizzazione. Sono tutti argomenti che vengono trattati alla meglio con riluttanza e alla peggio con vergogna. L’altro aspetto, che riguarda sempre una dimensione di assenza, è quello del silenzio, scontratosi spesso con la necessità di funzionare. Mi spiego meglio: i neonati hanno bisogno di percepire la differenza fra il giorno e la notte per comprendere il ritmo della propria vita ed iniziare a praticarlo. Noi abbiamo invece gradualmente perso il peculiare ritmo che governa il silenzio e il rumore, determinandone il passaggio.
Siamo sempre pronti ad essere funzionali e funzionanti. E nulla più ci basta.
Non è un discorso politico, ma la trascendenza – che nemmeno io ho trovato – passa attraverso l’essenziale: noi abbiamo troppo e questo troppo ci devasta.
Il silenzio d’altronde è uno dei punti cardinali del tuo lavoro e ne parli soprattutto in termini di contemplazione. Non c’è però il rischio che silenzio e rumore si equivalgano nel mondo caotico in cui viviamo? Spesso si fa un gran parlare del silenzio come virtù, ma potrebbe essere anche la codardia del mondo, incapace di affrontare discorsi “inutili” come l’amore e per questo essenziali.
Il nodo della questione resta la modalità con cui siamo capaci o meno di affrontare l’assenza e il silenzio, fermo restando – come dici bene tu – che il nostro silenzio non è mai un vero silenzio. L’altro giorno stavo transitando al margine di un bosco con la mia automobile e mi sono chiesto “se l’auto ora mi lasciasse qui in panne, io che trent’anni fa ho vissuto in un bosco, saprei cavarmela in questa sorta di nulla senza provare alcun timore?”. La risposta era no, perché in questi trent’anni non ho mai avuto modo di praticarne ancora il valore.
Spesse volte il silenzio del mondo è un silenzio di posa.
Non è abitato – come può esserlo il silenzio naturale di un ambiente in quiete, la montagna ad esempio – quanto piuttosto agghiacciante. Ecco, il silenzio che spesso ci auto-propiniamo è quello di una camera anecoica, mentre noi abbiamo bisogno di un silenzio che ci parli, che sia autentico e che abbia il bagliore dell’universo. Siamo sempre più distanti da questa naturalezza: d’altronde è più facile costruire una camera anecoica che far crescere un bosco. Ritrovare il vero silenzio è un obiettivo che sento molto mio.
Parlando di silenzi e di assenze, mi viene spontanea una domanda su un altro brano, “In Der Nicht Sein“. A me che di formazione sono filosofa è balzato subito alla mente il concetto di Dasein, ovvero l’unità inscindibile di essere e nulla: l’uomo si colloca un po’ agli interstizi fra questi due elementi, in un equilibrio spesso difficile da gestire. È forse da questo mancato equilibro che scaturiscono anche tutti i malesseri della società odierna?
Fa davvero pensare quanto siano stati divinanti, sia Hegel che Heidegger, a produrre certi tipi di pensiero così tanti anni fa, quando eravamo ancora ben lontani dalle derive dell’oggi. Io penso che il nostro equilibrio si rompa perché continuiamo a costruire, noi per primi, il nulla con cui siamo in relazione. Un po’ come costruiamo la camera anecoica, e dunque un silenzio artificiale, per non dover fare i conti con il silenzio autentico.
La nostra costruzione del nulla non avviene costruendo il niente, ma costruendo qualsiasi cosa.
Ed è esattamente ciò che stiamo facendo. L’idea di questo brano, per dirti, mi è venuta dopo aver regalato ad Anna, mia figlia, un ovetto Kinder. Volevo gratificarla per un bel disegno che aveva fatto e ricordo che, all’interno di questo ovetto, c’era uno stampo di plastica, a ritrarre una figura di valchiria con testa di lucertola. Rimasi perplesso e mi chiesi chi diavolo avesse avuto la “brillante” idea di immaginare una figura simile, per poi farla costruire in Cina affinché una bambina potesse, infine, scartare questa sorpresina in Italia.
Non è forse questa una costruzione del nulla?
Pensai per la prima volta il brano proprio mentre Anna se ne stava lì, ignara, a mangiare la sua cioccolata. Quello che mi viene da dire – senza voler per forza insegnare qualcosa a qualcuno, perché non sono in grado – è che spesso gli avvisatori, ovvero coloro che si accorgono di dinamiche come questa (educatori o filosofi che siano), sono considerati non dei custodi ma quasi degli aguzzini, mentre invece gli aguzzini sono ben altri. Se viviamo in una società che confonde i propri aguzzini con i suoi custodi abbiamo un problema davvero grave.
E i cantautori che cosa sono, custodi o aguzzini?
Personalmente mi ritengo uno studente della scuola primaria: non penso di avere più di otto anni. A parte gli scherzi, credo che scrivere canzoni mi dia il modo di comprendere me stesso in primis e soprattutto di esplorare ogni giorno i miei limiti di comprensione verso le cose. Secondo me un cantautore dovrebbe davvero essere uno studente, che nel momento in cui comprende le cose non fornisce delle risposte ma formula delle domande per permettere a se stesso e agli altri di capire ancora di più, espandendo i punti di vista. In fondo è proprio questo l’intento del mio disco.
Un disco capace di condensare mille suggestioni in 12 canzoni.
La preferita di chi scrive? “Pescatori di perle“. Da ascoltare preferibilmente dopo aver letto “Il gabbiano Jonathan Livingston“, in un inutile quanto essenziale pomeriggio di pioggia.
Queste le prime date annunciate del tour organizzato da Magellano Concerti e prodotto da Officine della Cultura e Whodo:
Sabato 20 gennaio 2024 – Glue – FIRENZE
Giovedì 8 febbraio 2024 – Hiroshima Mon Amour – TORINO
Venerdì 9 febbraio 2024 – Latteria Molloy – BRESCIA
Giovedì 22 febbraio – Monk – ROMA
Venerdì 23 febbraio – Arci Kalinka Dude – SOLIERA (MO)
I biglietti per i concerti di Torino, Brescia, Roma e Soliera (MO) sono già disponibili in prevendita. La data di Firenze è ad ingresso gratuito con tessera annuale. Per tutte le info: www.magellanoconcerti.it
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.