Sono quindici anni che mandiamo tutti affanculo con gli Zen Circus
Spartiacque. Ogni volta che penso a questa parola mi viene in mente Mosè nel Mar Rosso. Non tanto per questioni di devozione, anzi. Piuttosto perché è l’unica immagine capace di rappresentare insieme due concetti diversissimi – spaccatura e ordine – senza sembrare, per questo motivo, contraddittoria.
Nelle carriere di tanti artisti e di tante band c’è spesso uno spartiacque simile. Una spaccatura, appunto, che mette anche ordine nel loro percorso, delineandone un prima e un dopo. È il caso di Revolver (o forse di Rubber Soul) per i Beatles e di Bringing It All Back Home per Bob Dylan. Ma anche di Wow (o forse di Requiem) per i Verdena e de La voce del padrone per Franco Battiato.
Allo stesso modo, nella carriera degli Zen Circus lo spartiacque è rappresentato da Andate tutti affanculo, disco che oggi compie 15 anni.
Guardare senza essere visti
Quando ad averne 15 (di anni) era lui, Andrea Appino, leader e autore della band, si trovava intento a scappare quotidianamente dai bulli. Ma allo stesso modo, nella sua impopolarità, era anche “affezionato a quella cappa di invisibilità che indossava ogni giorno, appena metteva i piedi giù dal letto, e che gli consentiva di guardare fiumi di persone senza essere visto, come se fosse un mantello magico dietro cui scomparire nei momenti più tristi”. Parole sue. Anzi, parole di Andate tutti affanculo, romanzo anti-biografico pubblicato nel 2019 proprio dagli Zen, aiutati nella stesura da Marco Amerighi. Un libro che del loro disco-spartiacque porta lo stesso titolo. E che racconta in modo più onesto del reale ciò che ha portato alla creazione di quell’indimenticabile lavoro.
Guardare fiumi di persone senza essere visti e utilizzare la musica come un mantello magico, dentro cui avvolgere e sublimare i momenti più tristi: è esattamente questo ciò che iniziarono a fare gli Zen Circus, partendo da quell’11 settembre del 2009. Ma in verità avevano già gettato le basi del processo quattro anni prima, grazie a Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo (disco uscito appunto nel 2005). Fu allora che il trio toscano cominciò ad abbandonare il musicalissimo inglese in favore della madrelingua. Una scelta azzeccata, adatta ad elevare la capacità autoriale di Appino e che venne poi riconfermata come tendenza proprio con Andate tutti affanculo, primo album totalmente in italiano della band.
Un lavoro capace di condensare, in tre quarti d’ora e dieci tracce, un turbinio di storie e cambiamenti. E di tradurre istanze sociali e di rivolta nell’intimismo di riflessioni più personali ma altrettanto universali.
Ascoltando Amico Mio, ad esempio, si ha l’impressione di assistere al primo concerto della band, durante un’occupazione studentesca, mentre fuori imperavano gli anni Novanta del berlusconismo e delle controculture. Con Canzone di Natale torniamo invece al tour d’esordio, fatto di viaggi estivi in camper e notti sotto le stelle a smaltire le sbornie e pensare al metadone del giorno successivo. Ma questo brano ci ricorda anche e soprattutto che il freddo delle dipendenze ce lo cuce addosso soprattutto l’inverno, in quella scimmia del tutto simile agli stornelli delle feste comandate, che rimbombano nella testa pure se non vuoi. Con un po’ di fantasia riusciamo a piazzare Ragazza eroina al G8 di Genova, le scarpe firmate a definirne la fuga dai tafferugli. O ancora ad immaginare L’egoista mentre osserva, circondato dal suo disincanto, le Torri Gemelle che cadono in tv.
L’avvenire è andato, ma…
“I sogni del passato sono ancora tutti qua”. Potrebbe essere questo, d’altronde, il claim dell’album. Se non fosse che Andate tutti affanculo non ha affatto bisogno di un claim, di un motto o di un inno. Perché inno, motto e claim lo è già, nell’irriverenza schietta e al contempo arresa di quei tre ragazzi pisani che di strada, letteralmente, ne avevano già percorsa tanta. E che la prospettiva del futuro la guardavano di sbieco, reggendo in mano cartelli già di per sé eloquenti. “Facciamo un disco in italiano, sì! E andate tutti affanculo” sembravano urlare. Un urlo assimilabile a quel “Vivi si muore” che intoneranno cinque anni dopo, così come a moltissimi altri, incastonati come pietre preziose nella discografia successiva.
Una delle cose che rende ogni nuovo urlo degli Zen accostabile al precedente – come la tessera di un enorme mosaico dal disegno ancora indefinito – mantenendosi comunque squisitamente unico ed attuale, è la capacità di non omologarsi mai ma di riconoscersi comunque sempre. Spaccare e ordinare, un po’ come il Mosé nel Mar Rosso dal quale siamo partiti. E questo è forse possibile perché, a fasi alterne, gli Zen Circus decidono di prendersi sistematicamente delle pause l’uno dall’altro, coltivando i reciproci progetti solisti con grande spirito d’avventura, scoperta ed autoanalisi, alla ricerca di nuove consapevolezze da riversare poi nel ritorno successivo.
È così che Appino, lo scorso anno, ha fatto uscire Humanize, un “audio-documentario sulle irrisolvibili contraddizioni umane”. Ed è così che Karim gira teatri e club con Nosferatu (una storia di sangue), unendo le immagini di una pellicola anni ’20 ad un dirompente accompagnamento musicale.
Ecco dunque che, a 15 anni dall’inizio degli Zen come tutti li conosciamo, c’è oggi un’altra pausa in corso. Ma sembra di sentirlo ribollire ed affinarsi, separatamente ed insieme, il loro istinto quasi primordiale: quello di continuare ad essere i folk-punk-rockers di sempre, interrogandosi sulla propria sopravvivenza e su quella del mondo che li circonda. E portando avanti quel modo di fare musica caratterizzato da un’ipersensibilità alla luce, mischiata all’acuta capacità di perlustrare gli anfratti più bui, propri e altrui.
Andate tutti affanculo compie oggi 15 anni. Ma non ne dimostra nemmeno la metà.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.