La strada che dall’Hotel Esistenza dei Fask porta al mare

Se Hotel Supramonte di De André era il toccante racconto del proprio sequestro e Hotel California degli Eagles l’allegoria neanche troppo velata di un’industria musicale della East Coast sull’orlo dell’autodistruzione, Hotel Esistenza – l’ultimo album dei FASK uscito il 25 ottobre per Woodworm – rappresenta la struttura recettiva delle loro (e delle nostre) vite, a tre anni di distanza dall’uscita del precedente lavoro, È già domani.

Hotel Esistenza racchiude proprio questi ultimi tre anni – ci hanno raccontato Aimone Romizi, Alessio Mingoli, Jacopo Gigliotti e Alessandro Guercini – e contiene, esattamente come fa un albergo con le sue stanze, diversi aspetti della nostra musica. Ci sono canzoni che parlano di feste dalle quali scappare, dell’inferno che ci portiamo dentro e di autostrade che invece ci riportano a casa”.

A proposito di autostrade: ad un primo ascolto del disco penso che proprio la strada, insieme al mare, sia l’elemento preponderante di questo lavoro.

Assolutamente sì. C’è tanto mare, in canzoni come Cielo – “siamo fiumi che s’incontrano a metà, dura poco ci si divide nel mare” – ma anche in Quasi universo – “scaviamoci un buco, ritroviamoci il mare”. La strada invece la troviamo già come dichiarazione programmatica all’inizio dell’album: la prima canzone, Una vita normale, comincia proprio con il rombo di un motore che si avvia.

C’è allora più mare o più strada in “Hotel Esistenza”?

Difficile a dirsi. Il mare ha una funzione catartica per noi: siamo umbri, qui da noi non c’è. Allora diventa qualcosa che vediamo per poche volte, che rappresenta l’infinito di attimi meravigliosi, mentre la strada la viviamo quasi quotidianamente, spostandoci per i concerti.

Mettiamola ai voti.

Aimone: Dai, dico mare.

Jacopo: Per me strada. Anche dal punto di vista più musicale, il driving rock americano ci ha sempre ispirato parecchio.

Alessandro: Pure per me vince la strada.

Alessio: Direi mare, almeno per questo disco.

Pari merito dunque.

Aimone: E benvenuta nell’incubo dei FASK, lo stai vivendo in diretta. Lo stallo faskiano di quando dobbiamo fare una qualunque scelta che ci riguarda è esattamente questo.

Jacopo: Ma come cantiamo in Vita Sperduta, “ti devi abituare alle strade in salita che portano al mare”, dunque può darsi che alla fine la parità dei due elementi, nel nostro processo creativo, sia giusta.

Molto democristiani anche i FASK.

Pietosamente democristiani, sì.

Questi due elementi comunque vi permettono, in “Hotel Esistenza”, di cantare diversi temi. Uno di quelli che più mi è balzato all’orecchio è il senso del colpa.

In almeno due brani, sì. Il primo, È solo colpa tua, è più incentrato sull’analisi di un senso di colpa individuale e perciò intimo. Nel secondo, Brucia, è ben presente invece anche un’istanza sociale più definita e il desiderio di sostituire il cinismo dell’età adulta con un po’ di rabbia adolescenziale.

Questa sostituzione è una ricetta che a vostro avviso funziona per migliorare le cose?

Se frutto di un’attenta riflessione, crediamo di sì. Il brano ha una genesi molto lunga, iniziata nel 2020 durante la quarantena, nel periodo in cui il movimento Black Lives Matter ha invaso le strade. Tutto quello che vedevamo accadere in America ci ha portati ad interrogarci. Ci sono cose per le quali in passato, da ragazzini, ci saremmo incazzati, cose per cui avremmo fatto a pezzi il mondo. Mentre adesso, da adulti, ci intristiamo, ci indigniamo e in un certo qual modo ci isoliamo, pensando che la società civile sia destinata ad una fine ignobile.

Ci siamo convinti, senza manco accorgercene, che la voglia di reagire che avevamo a diciotto anni era pressocché inutile. Dietro al testo c’è questa riflessione: forse dovremmo ascoltare di più l’adolescente che è dentro di noi e, di fronte ai mali del mondo, dovremmo agire di più, arrabbiarci di più, fare tutto “un po’ di più” rispetto a quello che facciamo da adulti. Anche in È solo colpa tua c’è una parallela intenzione di tutelare il bambino che è in noi, stavolta con tenerezza invece che con rabbia, nella capacità di vivere liberi e senza filtri per davvero.

Proprio “È solo colpa tua” finisce con una sorta di appello al domani – “e domani, domani chissà” – un futuro forse fatalisticamente lontano?

L’idea è quella di attendere il futuro come si attende la notte dopo la giornata appena trascorsa, nella consapevolezza di quanto il tempo sia esso stesso forma di cambiamento. Tante volte ci sembra di non progredire o di non andare da nessuna parte e poi ci troviamo giunti, senza quasi accorgercene, al punto che fino a poco tempo prima scorgevamo solo da lontano. Il tempo scorre, le cose si diluiscono. E questo nel duplice significato del dolore che passa e della voglia di vedere quello che ci sarà dopo, ma che in qualche modo è già qui. Dunque sì, il futuro si attende fatalisticamente, ma nella consapevolezza che comunque lo stiamo già costruendo.

Fast Animals and Slow Kids, “Hotel Esistenza” [Ascolta qui]
E qui mi viene in mente il titolo del vostro precedente album, “È già domani”. Da allora, che cosa è cambiato? Come siete cambiati?

Ci è passata la vita in mezzo. C’è stato di tutto e abbiamo cercato di condensarlo nella musica. Pensa che inizialmente le canzoni erano 42. La cernita è stata dolorosissima: dovevamo capire quali di quelle anime, quali di quelle sensazioni, sentivamo più forti per noi. Quali brani, in buona sostanza, avevano caratterizzato di più proprio lo scorrere di questi tre anni.

Nella pratica, il tempo è stato scandito da un tour europeo che ci ha visti percorrere 17.000 km in un mese, portandoci appresso un bel bagaglio di incertezze e follia che già conoscevamo ma che quasi non ricordavamo, visto che l’ultima esperienza simile l’avevamo fatta a vent’anni. C’è stato poi anche un tour nei teatri accompagnati da un’orchestra sinfonica di trenta elementi.

Questo per dire che anche solo le esperienze musicali, da È già domani ad Hotel Esistenza, sono state così assurde ed eterogenee che l’unica cosa che possiamo risponderti è: sì, è cambiato tutto. Certo, il nostro modo di fare musica è rimasto lo stesso: si tratta sempre di arrivare ad una sintesi sostenibile di ogni singolo pezzo, arrivare a pensare che quel brano sia la cosa più giusta, in grado di esprimere al meglio ciò che tutti e quattro vogliamo. Ma questo lo facciamo già da Cavalli, il nostro primo disco.

Hai parlato di musica e, musicalmente parlando, ogni brano di “Hotel Esistenza” ha i suoi stimoli e le sue sonorità di riferimento. War On Drugs e Killers per “Quasi l’universo”, Weezer e Pixies nel caso di “Festa”, passando per Vampire Weekend e Wilco nel caso di “Torna” ma anche Ride e My Bloody Valentine per “Santuario”. Mi chiedevo se in questi tre anni, fra le nuove uscite di band o artisti italiani, avete sentito qualcuno o qualcosa che può avervi ispirato, anche inconsciamente.

Questa è una domanda difficile, perché sicuramente siamo consapevoli di quanto accade nel nostro panorama musicale, ma non ascoltiamo molta musica italiana. Non abbastanza da esserne enormemente influenzati, perlomeno. Zen Circus e TARM ci hanno sicuramente ispirati negli anni: a livello generale però, non per Hotel Esistenza nello specifico.

E, a proposito di Zen, “Quasi l’universo” è la canzone che più me li ricorda. Soprattutto mi ricorda “Catrame”: siamo parte dell’eternità del mondo e continuiamo a comportarci da millesimo di secondo. L’ispirazione dichiarata del vostro brano è anche molto letteraria: c’è il “contengo moltitudini” di Whitman, ad esempio.

Sì, il concetto che volevamo trasmettere con questa canzone lo sentiamo anche molto nostro ed è proprio questo: è vero che conteniamo moltitudini, ma qual è la grandezza di queste moltitudini? Ogni persona porta in sé una vastità di emozioni e di sensazioni che raggiunge “quasi l’universo” per l’appunto, ma quasi. All’infinito ci arriviamo soltanto se aggiungiamo altri “quasi universi” al nostro: nelle relazioni e nei rapporti interumani dunque, che siano di amicizia o di amore. La completezza si sviluppa nel senso dell’insieme. In questo ci crediamo molto.

Ed è davvero molto bello. Eppure in altre canzoni del disco raccontate anche la completezza non raggiunta, gli amori finiti. Logorati, come in “Santuario”, oppure traditi come in “Come no”. Ma forse è “Cielo” il brano dove la presa di coscienza sull’effimerità dei rapporti si fa più centrale e centrata.

Certo. Ed è certo anche come i rapporti siano effimeri. Ma l’infinito sta anche nella possibilità di non raggiungerlo. Noi ci proviamo: l’idea di un rapporto duraturo è per noi fonte di forza. Il concetto stesso della band è emblema di questo: siamo gli stessi quattro elementi che provavano assieme quindici anni fa. Quante volte succede questo nella musica, in generale? Molto poco. Ma far parte di quel poco è un privilegio e una fortuna per noi, oltre che un booster di speranza.

Ecco: la speranza. Un altro tema che a mio avviso permea “Hotel Esistenza”, fino ad esplodere nell’ultima traccia. “Dimmi solo se verrai all’inferno” è diversa dalle altre anzitutto per ambientazione e atmosfera: laddove c’era il mare di cui abbiamo parlato all’inizio ora c’è l’analoga pace della montagna, laddove c’era una strada qui c’è un sentiero. Un brano di chiusura che è insieme un’apertura di nuovi orizzonti. Dove ci volete portare?

A noi piace l’idea di una certa circolarità. L’ultima canzone del disco esplode nel ritornello con una domanda molto chiara – “Dimmi solo se verrai all’inferno con me” – che musicalmente assolve per noi due principali esigenze e funzioni. Da una parte, si connette al primo pezzo dell’album e ultimo, in ordine di tempo, che abbiamo scritto: Una vita normale. Lì cantavamo “dentro di me c’ho l’inferno”. Questo ci ha permesso appunto di creare un movimento circolare fra inizio e fine, come fra dolore e speranza, fra insicurezza e voglia di vita.

Dall’altra, in termini di significato, abbiamo proprio cercato di individuare i limiti di una promessa d’amore per poterli superare: può infatti questo amore riuscire ad esistere anche dove l’amore non ha mai potuto entrare?

La risposta qual è?

La risposta è sì. Ci crediamo fortemente, anche quando invece le cose sembrano andare in tutt’altra direzione. Ma sentieri diversi per altre cime sono sempre possibili: la montagna lo insegna.

Un’ultima curiosità. Se “Una vita normale” è l’ultimo brano che avete scritto, qual è invece il primo?

Proprio Dimmi se verrai all’inferno con me. Su questo noi siamo veramente capziosi, ci ragioniamo tanto. Ci sono tante piccole cose non casuali che mettiamo in atto nella costruzione e nell’ordine dei brani: forse inconsciamente, forse perché ci divertono o forse per la semplice speranza che l’ascoltatore se ne accorga.

Ad esempio Cielo è una canzone che si basa su un riff principale molto semplice, costituito da una singola nota di pianoforte che si ripete continuamente. Questo suono ci sembrava quello di un telefono occupato e abbiamo scelto di utilizzarlo perché rievocava il tema della comunicazione vuota o interrotta, della mancanza di connessione – nel testo, “le mie parole che s’infrangono dentro un telefono”. E così si accentuava l’atmosfera malinconica del contesto, combinando musica e parole per dipingere lo stesso paesaggio.

Un paesaggio che è possibile visitare ascoltando il disco, ma anche incontrando i FASK durante gli instore e i concerti, di cui vi ricordiamo qui sotto le date.

INSTORE TOUR

24/10 – Milano (Ostello Bello) h.21

25/10 – Padova (Amsterdam) h.18

26/10 – Bologna (Locomotiv) h.14; Bergamo (NXT Station) h.18:30; Brescia (Latteria Molloy) h.22

27/10 – Torino (Capodoglio) h.12 e h.14; Asti (Diavolo Rosso) h.17; Genova (Ostello Bello) h.21

28/10 – Livorno (Bad Elf) h.17; Firenze (Ostello Bello) h.21:30

29/10 – Cesena (Spazio Marte) h.18:15; Montecosaro (Teatro delle Logge) h.21:30

30/10 – Roma (Monk) h.21:30

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