Con “Il Canto dell’Asino” è arrivato il momento di Generic Animal

Spesso e purtroppo i momenti migliori li vivi solo quando sei solo, tipo morire, tipo guardare la gente partire – inizia così, senza giri strumentali, Il canto dell’asino, il quinto album in studio di Generic Animal. In medias res, con una dichiarazione di intenti piuttosto chiara: non è un disco facile, non c’è tempo per i preludi e per la preparazione. Si parte con la musica, che non è né leggera né leggerissima.

In questo disco, l’animale generico diventa specifico, e assume i connotati dell’asino: è l’animale più sottovalutato della vecchia fattoria, quello che raglia – che non è proprio il canto di una cicala. È quello che, dentro e fuori dalle metafore, non può competere con gli animali esotici, rari, bellissimi. Se ne sta lì, con le sue contraddizioni, la sua originalità, se vuoi, ma non c’è nessuno che gli punta gli occhi addosso.

Ho ascoltato Il canto dell’asino a lungo, prima di scriverne.

Perché è un disco non facile, lo dicevo sopra, ma soprattutto perché porta con sé una carica emotiva che difficilmente si incanala in parole o paragrafi. Ho pensato a un certo punto di non scriverne – che bisogno c’era di cercare frasi adatte per raccontare qualcosa che trascende il linguaggio? Poi però ho deciso di farlo, per tre motivi. Per cercare di mettere un po’ d’ordine all’interno degli spettri emotivi dei brani. Per stima e per rispetto nei confronti dell’artista. E perché la legge della vita che più conosco e rispetto impone che, noi che i dischi non li sappiamo fare, abbiamo il dovere di raccontarli e di cercare di dar loro più risonanza possibile, quando la meritano.

Tredici pezzi compongono l’album, compresi tre interludi – Stare 1, Stare 2, Stare 3. C’è una sola voce oltra a quella di Generic Animal, di Marta Del Grandi, in Karaoke, ma ci sono molte collaborazioni nella costruzione e negli arrangiamenti – da Arianna Pasini, a Fausto Cigarini, fino a Marco Giudici.

Generic Animal – Il Canto dell’Asino [Ascolta qui]

Il canto dell’asino è un disco onirico, immaginifico, che però a tratti è didascalico. È un album disturbato, in certi suoni sguaiati, in certi versi urlati o in certe frasi schizofreniche, ma al tempo stesso è un disco caldo, domestico, nel timbro di Generic Animal e nella quotidianità di certe storie narrate. È un disco fiabesco ma non escapista, dove i protagonisti delle narrazioni sono spesso delle persone reali, che esistono davvero. Dal punto di vista dei suoni, è un album che passa dalle ballate chitarra e voce, ai riff drammatici tipici degli Smiths, fino a pezzi glam rock o scritti al pianoforte.

“Il canto dell’asino” è, sostanzialmente, un disco ricco e complesso, ben lontano dalle logiche usa e getta di certi lavori costruiti a tavolino per somma di singole parti.

Certo, ci sono alcuni brani che arrivano subito, ma la maggior parte necessita di più ascolti, per far sì che i testi si sedimentino e le scelte sonore e produttive vengano comprese a pieno. È uno di quei dischi in cui, ogni volta che si preme play, si notano dei dettagli nuovi, delle frasi su cui si era sorvolato, dei riff che ci si era persi. E, mi viene da dire, meno male che esistono ancora album del genere.

Il brano che apre il disco, Zero, è il vero e proprio raglio dell’asino.

Un pezzo che narra le vicissitudini di una vita ordinaria, a metà tra il sogno e la realtà. Il mio momento chissà se arriverà – questo il mantra che si ripete. Sullo sfondo, scorrono mamme che annaffiano la schiena dal balcone mentre dicono che fuori piove, e alla fine arriva uno stronzo vestito da Batman che sostiene che la musica dell’artista è strana e non vende per niente. Qualche schitarrata nervosa e qualche urlo disperato si inseriscono in questo lungo manifesto programmatico, che racchiude in sé tanti degli elementi chiave dell’album.

Dei dieci pezzi del disco – esclusi gli interludi – la metà era stata anticipata dal cantautore come singolo, nelle settimane precedenti.

C’è Tokyo 20, una riflessione basata su un pianoforte e iniziata su un viaggio intercontinentale. Scritta in parte utilizzando una chitarra midi, e in parte con un arrangiamento tasto per tasto, si districa su livelli folli tra denti che dondolano ma non cadono e una terapia rubando i tempi liberi. C’è poi Bobby Ballad, una filastrocca sarcastica con un ritornello che si attacca al cervello – e ovunque, al supermercato, in palestra, sui mezzi per andare al lavoro una vocina in testa canta amore aspettami a letto anche se pensi che non torno più.

Spirito è, alla lettera, un brano spirituale, che inizia pacato e cresce sguaiato senza perdere la misura. Lo spirito rimane per sempre / che voglia hai di parlarne gratuitamente al risveglio – narra l’artista, mentre gli vengono strane frasi in mente. Un’esistenza a tratti disturbata, per fortuna però che c’è uno spirito, là sopra, che disegna un piano per tutti quanti.

Per finire, ci sono Eric – che fai?, una lettera ad un amico scomparso, e Grigio marrone, il canto dell’asino, un’ode a Generic Animal, che forse non è un animale esotico e da copertina, ma son cinque dischi ed è ancora qua.

Le cinque canzoni che non erano state rilasciate come singoli sono, per motivi diversi, quelle più emotivamente concentrate e ricche di simbolismi.

Oltre a Zero, c’è Trampolini, brano che più di tutti possiede un sound onirico e magico. È una ballata molto delicata sull’andare e venire, una tenera lettera di scuse perché volevo tornare qui con un cesto di frutta invece non ho che da offrirti sudore. 27, come gli anni del protagonista, è una ritmica e concitata riflessione su cosa vuol dire avere ventisette anni – fondamentalmente, essere svegliato dai vicini che fanno rumore la notte, incazzarsi, battere sul muro per chiedere silenzio e sentirsi dare dell’invidioso. Gli ultimi due pezzi, conclusivi, sono i più cupi, i più drammatici.

Karaoke è la storia di una relazione finita. C’è lui che non ha più pensieri strani, dice, ma questa notte è un’eccezione. E allora è andato in un bar con karaoke, da tanto che era disperato, per provare a divertirsi – e guarda un po’, lei lo aspettava lì. Alla fine, entra Marta Del Grandi, dea ex machina, che racconta come stanno le cose e cambia la prospettiva. No, non lo stava aspettando, passava per caso, lo ha visto ballare come uno scemo e cantare stonato, ma si sa, vuole sempre essere il re della festa e piacere a tutti, insopportabile. E poi c’è I grandi, con un riff che ricorda gli Smiths, e che accompagna una tematica che con le sonorità degli Smiths ci sta alla perfezione – siamo pronti per diventare grandi? Andrà tutto bene?

Il canto dell’asino è, per quanto mi riguarda, il disco dell’anno.

Tredici brani perfettamente inseriti nella narrativa comune. Sonorità disparate che insieme riescono a risultare coese, testi simbolisti, ricchi di senso, articolati su più livelli. Al suo quinto album, Generic Animal ha pubblicato il suo capolavoro, e ha dimostrato – se ce ne fosse bisogno – le ragioni della sua longevità. Potrei passare un giorno intero a discutere di questo album. Ma non lo farò. Anzi, torno a premere play, ché sono sicuro ci scoprirò altre cose e mi pentirò di non averle scritte.

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