Era un venerdì di dicembre e fuori faceva un freddo impossibile. Mi ricordo ancora un locale piuttosto contenuto, il soffitto molto basso, un sacco di gente. Pesaro, anche quella sera, era una donna intelligente: irresistibile come sempre. Tra i musicisti che lo accompagnavano c’era Francesco Sarsano dei Vanilla Sky, presentato proprio così da Edoardo, a metà concerto. Sono passati meno di tre anni da quella data zero del tour di “Mainstream”. Calcutta era una volta di più, in quelli che erano tempi ancora non sospetti, ospite di una città che lo aveva a tutti gli effetti, da anni, adottato.
E chi l’avrebbe mai detto che lui, da quella piccola sala piena di volti amici, alla fine avrebbe vinto tutto in questo modo?
Quando scrissi mesi fa su Stormi che Calcutta era una sorta di figura messianica della musica italiana e che la scena degli ultimi anni poteva essere divisa in a. C. e d. C. – avanti Calcutta e dopo Calcutta – era la pura e semplice realtà, un dato di fatto, ben evidente anche senza l’esistenza di “Evergreen”. Che Edoardo fosse un anomalo e un inclassificabile lo si sapeva da anni. Sin dal suo primo e poco conosciuto lavoro d’esordio “Forse…”.
Ma che dietro di lui si nascondesse la stoffa del fuoriclasse e del campione solo in pochi – uno di questi è Niccolò Contessa de I Cani, che curò la produzione di “Mainstream” – potevano auspicarlo. In realtà nessuno probabilmente sarebbe riuscito a prevedere il futuro immaginando decine di migliaia, forse ormai centinaia di migliaia di fan, pendere da qualunque minimo suo vezzo creativo: dal concerto a sorpresa al MI AMI della giornata di venerdì, alla presentazione del nuovo album in un Autogrill, fino alle due date uniche in stadio e arena.
Pubblicato da Calcutta pagina di su venerdì 25 maggio 2018
La conferma definitiva del suo valore, dopo il piccolo e semplice miracolo di “Mainstream”, arriva con questo nuovo album molto atteso: “Evergreen”.
Il nostro pare dare i titoli ai dischi in base alle sue speranze di accoglienza di questi. Fateci caso: il primo “Forse…”, dice quasi, “Chissà, magari a qualcuno piace”. “Mainstream” è poi a tutti gli effetti ciò che è accaduto: un titolo un po’ ironico che esorcizzava e che poi si è tramutato in una sorta di benedizione inconsapevole. Allo stesso modo, ma con più coscienza, questo “Evergreen” sembra mirare proprio in alto.
Questa volta l’obiettivo è la continuità. Come a dire: “Ehi, non sono uno dei tanti”. E ciò farebbe il verso anche ai molti che hanno congetturato sulla copertina del disco con Calcutta fra le pecore, che dovrebbe essere simbolo dell’ondata di cloni calcuttiani che la scena musicale avrebbe visto negli ultimi anni.
Gestire un estro e uno spirito che – per sua fortuna o suo malgrado può saperlo solo Calcutta – è diventato così rappresentativo di una intera generazione non è affar semplice.
Un po’ come quando, nell’America degli anni Cinquanta, nacquero i Beat. Fernanda Pivano racconta di scrittori e poeti squattrinati, che non avevano nemmeno i soldi per pagarsi camere di albergo a poco, gente totalmente concentrata a scrivere oppure a bere. Personalità complesse e spesso poco controllabili, tanto che la Pivano una volta, a Jack Kerouac, a causa della continua richiesta di alcolici, dovette servire un bicchiere d’acqua col bordo cosparso di Whisky. Lui ovviamente bevve come se nulla fosse.
In “Briciole” e in “Kiwi” ad esempio, ora più che mai, si sente la tradizione italiana degli anni ’50 e ’60.
Non mancano, tra gli arrangiamenti piuttosto tendenti ai ’70, la presenza minacciosa dei grandi a cui Calcutta è sempre stato avvicinato, come Rino Gaetano, Lucio Battisti o l’immancabile Cesare Cremonini. Ma io ci vedo anche tanti probabili ascolti internazionali, come un Dan Croll. Al di là delle banalità dei soliti rimandi, le canzoni più rustiche come “Saliva”, così come le più raffinate “Nuda Nudissima” e “Rai”, lasciano intravedere una certa voglia di sperimentare, pur mantenendo sempre l’identità ben netta e lampante nei singoli, già hit dopo pochi secondi dalle rispettive uscite, “Paracetamolo”, “Pesto” e “Orgasmo”.
Proprio come Nanni Moretti, quando in “Caro diario” visitando Spinaceto commenta positivamente l’aspetto tutto sommato piacevole del luogo, in modo opposto, ma simile nel meccanismo, chi si aspettava di avere la stessa reazione e lo stesso contraccolpo emotivo che ebbe con il predecessore “Mainstream” sarà rimasto di sicuro deluso. Brutta cosa le aspettative.
Io invece ci sento dentro l’energia di chi ha tanto da dire e si sta prendendo il giusto tempo per dosare le forze. Le vecchie canzoni che Calcutta andava strimpellando di qua e di là ben prima di “Mainstream”, brani che ora, ritrovati, brillano di una luce totalmente nuova e che sembrano sostenuti da uno spessore senza confronti in tutta la sua produzione, si mescolano a pezzi completamente nuovi e ricercati, per me affatto banali. La formula è sempre quella a cui ci siamo affezionati e che in “Oroscopo” trovò una conferma.
Un cantato semplice, più curato dei lavori precedenti, che lancia testi anch’essi essenziali e capaci di alternare momenti d’ispirazione di una sintesi quasi memica, ad altri in cui la vita si rivela in tutta la sua drammaticità. Un succedersi di registri alti e bassi a guisa di un Dante Alighieri pop del 2018, capace di parlare con lo stesso trasporto e umana passione di flatulenze come di corpi celesti.
Natan Salvemini
Natan Salvemini è nato nel mezzo degli anni Ottanta, gli piacciono le tartarughe, perdersi tra gli alberi e Bill Murray. Scrive di musica in giro e sul suo blog Stormi.