Maria Antonietta il 19 marzo è arrivata per la prima volta in libreria con Sette Ragazze Imperdonabili, dedicato alle sue sette sorelle maggiori: autrici che, come lei, “non si sono piegate ad alcuno stereotipo, non si sono conformate a nessun cliché, non hanno compiaciuto nessuna aspettativa”.
La sua – di Letizia – costante ricerca di emancipazione da sovrastrutture l’ha portata alla produzione di Deluderti, disco uscito nel marzo del 2018, poi alla stesura di questi racconti e di queste poesie strutturati in una forma del tutto inusuale. Il 3 maggio ha incominciato con la presentazione del libro d’Ore che vedrà il vero debutto come reading-spettacolo a Urbino il 19 maggio e tra una data e l’altra ho avuto l’occasione di farci una bella chiacchierata.
Da marchigiana doc devo chiedertelo: perché vivi ancora nelle Marche? So che ti piace stare nella natura, ma magari esistono posti più “comodi” per il lavoro che fai.
Guarda, io trovo che le Marche siano la regione più bella d’Italia, lo confesso senza alcun pudore. É molto difficile per me immaginarmi altrove. Sono nata a Pesaro e vivo a Senigallia da diversi anni. Penso che sia proprio una questione affettiva, spirituale… non credo che sia un caso che tutto il monachesimo del nostro Paese si sia sviluppato proprio tra Marche e Umbria. Sono luoghi molto spirituali, qui la natura ha una forma peculiare, non esiste altrove questa energia spirituale. E, se devo dire la verità, ogni volta che mi sono trovata altrove per lavoro, posti bellissimi, pieni di spunti culturali, di iniziative, perché le Marche…
…non offrono molto…
esattamente, però non mi trovo mai così a mio agio come qua, quindi non ho mai avuto l’idea di trasferirmi.
Ma quindi è un caso che abbia iniziato le presentazioni del libro a San Benedetto del Tronto o era voluto?
Direi che è stato un caso, però sono fermamente convinta che il caso non esista. Tutto è sempre voluto, in qualche modo.
Come sono andate queste prime presentazioni?
Molto bene, nel senso che i libri sono sempre qualcosa di ignoto. Anche i dischi, però a maggior ragione per i libri: magari le persone sono un po’ spaventate da questo tipo di scrittura e ammetto che ero molto nell’incognita, invece ho visto persone molto incuriosite rispetto a questa forma e molto ricettive.
Da metà maggio parte lo spettacolo, il reading musicale, perciò l’elemento musicale sarà molto presente e di certo sarò meno nell’incognita, perché è qualcosa che la gente si aspetta di più; ma devo ammettere che sono molto fortunata: ho un pubblico sempre molto attento, sensibile…ecco, credo che non si fermino alla superficie delle cose!
Dai, ci hai educati bene…
Ma no, sono loro che sono profondi e sensibili, quindi e di questo sono molto grata, e infatti lo dico sempre. Ovviamente lo scambio con il pubblico sono la metà di quello che faccio, perchè si potrebbe fare qualunque cosa ma se non ci si confrontasse con chi poi fruisce del lavoro, tutto si risolverebbe in altro modo, forse non così bene, quindi c’è veramente tanta gratitudine.
Cosa cambia rispetto al vecchio reading, oltre alla presenza del tuo libro, quindi dei tuoi racconti e delle tue poesie? Comunque in qualche modo la tua voce era già presente prima, anche se erano più preponderanti quelle delle tue sorelle maggiori.
Quei reading sono stati sia lo spunto per questo spettacolo, sia il punto di avvio per stesura di questo libro, perchè ad un certo punto mi sono resa conto di come queste figure, queste scrittrici fossero effettivamente per me come delle sorelle maggiori, perciò è entrata l’idea di rendere loro omaggio in una qualche forma. Quel reading è stato utilissimo per me, per capire tutto questo.
Però, appunto, in questo nuovo spettacolo la dimensione musicale si arricchisce, anche perché prima ero da sola con l’omnichord, invece ora sarò accompagnata da Daniele Rossi, che è un poli-strumentista, perciò ci saranno timbri e sonorità diverse; ma come prima le musiche saranno originali, pensate proprio per questi miei testi nello specifico. E certamente saranno presenti queste sette autrici in modo indiretto…
Ora, entrando proprio nel merito del libro d’ore, mi colpisce una certa dicotomia che si può intravedere tra le pagine: quella disciplina che ti ha portato a impegnarti in modo costante nella stesura del libro, quindi una certa regola che pare in contraddizione con il senso di libertà che si evince dai racconti sulle tue sorelle maggiori. Disciplina e libertà, nel sentire comune, appaiono in antitesi, mentre tu riesci a trovare il significato ultimo che lega questi due concetti, per cui si impara a essere liberi. Come?
Nel corso degli anni mi sono convinta che in realtà la libertà è un esercizio, cioè, la libertà non cade dall’alto, ma la si impara anche con una certa disciplina e sembra un paradosso, ma per la mia esperienza è sempre stato così. A volte anche per una questione caratteriale o di attitudine capita di auto-censurarsi, auto-vincolarsi, di mettersi in dinamiche che poi non realizzano davvero, quindi alla fine è questo: tu che con un certo impegno e una certa disciplina devi aiutarti ad andare verso la libertà, andare verso l’emancipazione da tutta una serie di sovrastrutture, di aspettative, di meccanismi.
La libertà non è qualcosa che qualcuno può toglierti
Ad esempio, una delle protagoniste, Elly Hillesum, scrive il suo diario negli anni dell’occupazione nazista e verrà privata della libertà, muore ad Auschwitz, ed è incredibile vedere come lei alla fine, diventa libera, perché si comprende e capisce il suo ruolo e cosa desidera. E allora mi ha fatto molto pensare di quanto la libertà e la felicità siano fatti molto più interiori di quanto noi siamo portati a credere. E un Libro d’Ore, quindi di preghiera, di devozione, è un libro in cui Dio è il protagonista, anche nel mio.
Nel senso comune Dio lo concepiamo come modello di obbedienza, un insieme di regole che ci circoscrivono, abbiamo dei pregiudizi nei suoi confronti. E invece no, per come la vivo io, in realtà lui è un interlocutore privilegiato perché è proprio un modello di libertà, perché Dio è colui che non si può recintare. Si parla di libertà non di castrazione, ovviamente nella mia visione eretica. Mi ricordo quando sono andata a fare lezione nell’istituto teologico, un insegnante aveva detto proprio questa frase che mi aveva molto colpita perché mi ero avvicinata anche io con molto pregiudizio: “non esiste la verità senza la libertà”, verità e libertà alla fine occupano due piatti della bilancia che pesano ugualmente. Questa mi è sembrata proprio una rivelazione.
A questo punto questa nozione di libertà mi pare molto legata a un altro concetto che mi pare a te molto caro, cioè quello di vocazione. Cosa significa per te?
Penso che ognuno abbia almeno una vocazione e ritengo che non esista altro peccato oltre allo spreco di queste. Il peccato più grave è proprio lo spreco di quello che ci è stato donato, concesso, che abbiamo e che, alla fine, è la vocazione. Proprio come nell’ultimo racconto che dice che l’unico merito che possiamo acquisire in questa vita è quello di fiorire anche al di là di tutto quello che ci circonda, delle difficoltà che hanno tutti del resto. L’unico merito è quello di esaudire la propria vocazione. E magari uno può sentirsi costretto a esaudire una vocazione che forse non è esattamente la propria nel profondo, quindi il problema è comprendere quale sia, ma poi non c’è costrizione che tenga da parte di nessuno.
Quando hai capito che una delle tue vocazioni era quella di cantare, scrivere, stare davanti a un pubblico?
Penso di averla capita un paio di anni fa, forse anche meno. Nel senso che prima scrivevo, producevo dischi, però non ero convinta che fosse la mia vocazione, infatti mi andavo a guardare diversi corsi di laurea. Avevo il pallino della matematica, quindi dicevo: “Ho sbagliato tutto, era quella la mia strada!”. Ma poi leggendo tanta poesia mi era tornata la voglia di scrivere e partecipare a quella dimensione di bellezza, ed è uscito Deluderti e i concerti mi hanno fatto capire che questa è la mia vocazione. Ma prima non ero affatto convinta.
Invece hai ancora paura di deludere oppure qualche volta senti il bisogno di essere un po’ più accomodante?
È molto faticoso cercare di emanciparsi dalle aspettative, cioè, tutti gli esseri umani hanno paura di deludere qualcuno, però ho capito che non serve: è un meccanismo che non porta verso il futuro, verso la felicità, non fa camminare. Ne ho sempre avuto la tentazione, però poi nei fatti riesco sempre a essere abbastanza lucida nel dire “no, questa cosa credo che sia da fare così”, e alla fine non faccio tanti sconti. Devo dire che in questo sono abbastanza incosciente.
Nelle canzoni, nelle poesie e nei racconti c’è sempre un tu che non vuoi deludere, che vuoi amare, che vuoi che ti riconosca o che vuoi che stia zitto; questo tu ha un volto?
Questo tu non è ben delineato, non si scende mai nei dettagli, anche perché nei racconti, anche se le cose narrate sono al 99% realmente accadute alle imperdonabili, non c’è la volontà di scendere in biografie; come anche per le mie canzoni: le cose sono tratte da fatti realmente accaduti però senza troppo voyeurismo. Quindi quel tu una volta è una determinata persona, mentre un’altra volta parli proprio a te stesso. Mi piace lasciare le cose aperte, sono più vive.
Il tu è fondamentale, altrimenti rimane un discorso autoreferenziale. A volte serve un tu che metta in crisi, altre volte un tu che dica cose intelligenti e che magari ti fa cambiare idea, penso che nessuno di noi sappia mai chi è grazie a se stesso. Nella maggior parte dei casi bisogna ringraziare un tu nel quale ti sei imbattuto e il tuo debito nei confronti di quel tu sarà sempre maggiore rispetto alla rabbia che ti provoca.
Alla Sesta prima dici che “nessuno colmerà le mancanze”, ma qualche verso dopo chiedi “chi colmerà le mancanze?”. Hai una risposta?
Ogni giorno bisogna fare i conti con la mancanza in tutte le sue forme, e con la mancanza di senso per eccellenza che ti abbatte quando vedi cose come la malattia, la morte, l’ingiustizia…quelle cose che ti atterrano e ti fanno stare veramente male. Però è quella la sfida: continuare ad avere fiducia e continuare a credere che il senso esista a prescindere da tutto. E qualcuno colmerà le mancanze e bisogna rendersi conto di come le mancanze a volte vengono colmate.
Preferisci le domande o le risposte?
Sicuramente preferisco le domande e penso che in generale chi è molto curioso, chi non si accontenta, chi si pone in maniera viva nei confronti delle persone, del mondo, non può che farsi moltissime domande e le risposte sono divertenti da cercare. Però nel momento in cui le trovi sicuramente ti farai un’altra domanda: la risposta che trovi non esaurisce mai la curiosità che hai e la mancanza.
L’industria musicale italiana ogni tanto cerca di ridurti? E tu come reagisci?
Sempre, è un meccanismo di tutta l’industria dello spettacolo: trasformare le persone nei personaggi. Una persona magari ha diverse spinte, diversi slanci, invece il personaggio è una cosa sola, e per il pubblico è più immediato. Ma la categorizzazione è inevitabile, anche nella quotidianità, quando ci si relaziona per la prima volta a qualcuno. Però non si deve superare una certa soglia, infatti sta anche all’artista, nelle sue scelte, a non assecondare una semplificazione; è una questione di onestà. Sicuramente è più faticoso, ma anche più divertente.
Ci sono state molte discussioni sulla scarsa presenza delle donne nelle line up di festival e concerti. Pensi che le artiste italiane siano poco valorizzate?
Sicuramente è una situazione molto complessa. Non credo per niente nella questione delle quote, la trovo un po’ svilente. Però è anche una questione di responsabilità. Uno spazio di grande visibilità, di spessore anche sociale e politico, oltre che culturale, non può solo prendere atto del fatto che la realtà è in un certo modo; con delle scelte si deve anche dare un’immagine della realtà migliore, la realtà si deve spingere. Constatare che ci sono meno progetti al femminile di successo non basta come giustificazione. Ovviamente un responsabile di uno spazio ha il dovere di generare dei numeri, creare delle vendite.
Nel nostro Paese c’è un po’ di difficoltà per i progetti gestiti e creati da femmine in prima persona che hanno generato i contenuti a raggiungere certi numeri, non so perchè, forse c’è una disabitudine culturale: una femmina che si pone in primo piano destabilizza un po’, non incontra una simpatia immediata, genera diffidenza. È una questione atavica, scattano meccanismi psicologici e sociologici di cui non ti so dare una lettura chiara. Ci sono in gioco molti fattori, ma di certo non è un sistema di quote che può cambiare questa realtà.
Leggendo “Sette ragazze imperdonabili” è chiaro perchè tu senta Etty, Emily, Sylvia, Marina, Antonia, Cristina e Jeanne come tue sorelle maggiori. Hai anche dei fratelli maggiori? Degli uomini nei quali hai intravisto questo stesso sguardo?
Questo essere imperdonabili che lega le sette protagoniste del libro non è sicuramente una prerogativa femminile, infatti nel corso del tempo mi sono imbattuta in tanti imperdonabili che mi hanno detto tante cose interessanti. Il primo, che è stato anche la ragione per cui mi sono avvicinata alla poesia, alla scrittura e, a catena, a tutto ciò che è accaduto nella mia vita, è stato Rimbaud di cui mi sono innamorata quando avevo 13 anni. Mi ero imbattuta in questa poesia bellissima: L’éternité ed ero rimasta molto colpita proprio dalla sua faccia. Era uno che ha disatteso qualsiasi aspettativa, talmente tanto da mollare tutto e andare in Africa a commerciare caffè. Lui era sempre un altro, quello che tu non potevi neanche immaginarti. Per me il primo imperdonabile è stato un uomo.
Adesso la raffica finale:
Libro preferito
Per quanto riguarda la prosa direi Delitto e Castigo; in poesia, Emily Dickinson al momento.
Concerto (tuo o di altri) che non dimenticherai mai
Direi in concerto dei Bluvertigo al Velvet di Rimini che era un club storico, forse era il 2000. È stato proprio rivelatore. E a parimerito un concerto dei Placebo sempre intorno al 2000 a Perugia. Mi ricordo che ero alle medie e nel libretto delle giustificazioni per uscire prima, mio padre metteva “per concerto”.
Artista da tenere d’occhio
Any Other, sa il fatto suo.
Città che ti piace di più:
Firenze.
Cocktail
Questa è facile: Gin Tonic!
Nelle tue giornate non deve mancare…
La passeggiata quotidiana al mare.
Foto in copertina di Luca Zizioli