Quando ho ascoltato “Domani“, il disco d’esordio di Tōru, ho avuto l’impressione di avere la possibilità di entrare nel microcosmo personale e intimo dell’autore. Il disco sembra congelare nel tempo un luogo e un momento storico preciso della vita di Elia Vitarelli. La stanza diventa la galassia dentro cui esplode, si frantuma e si evolve il suo Io.
Aprendo la porta ci troviamo di fronte a una sorta di Big Bang. “Soli” prepara il terreno per quello che sarà un viaggio interiore di cui il primo passo è l’ammissione. Renderci conto della solitudine invalicabile dietro cui siamo barricati ci spaventa. Eluderla, dimenticarla, scappare sarebbe inutile. Per questo per affrontarci abbiamo bisogno prima di tutto di ammettere di essere deboli e vulnerabili, di spogliarci di ogni resistenza e lasciarci andare.
Con un passaggio fatto di collegamenti di concetti che si ripetono, il viaggio inizia portandoci di fronte al mare. Quest’ultimo non è uno sfondo/cornice, ma parte attiva poiché diventa l’oblio che inevitabilmente ci avvolge. Perdersi in esso, naufragarvi ci fa sentire piccolissimi e nudi di fronte all’immensità della natura. “Siamo solo di passaggio“, il nostro tempo è piccolo e passa veloce come il battito d’ali di un gabbiano. La struttura di “Rimini” e l’impalcatura filosofica alla base contrappongono a questo concetto – di per sé nichilista – una speranza. La volontà di resistere ma soprattutto di farlo insieme a qualcuno nonostante la solitudine invalicabile a cui è costretto e in cui è confinato l’uomo.
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Galleggiando perduti e disillusi tra le onde di un mare immenso, ci sembra quasi di danzare.
Restiamo inermi mentre con grazia ci stringe la nostra infima compagna: è la paranoia che ci obbliga a ballare un valzer sulle nostre paure. La personificazione di questo status ci porta al centro di una sala da ballo vuota. Non siamo soli, la paranoia la percepiamo come densa, concreta. È lei a condurci e a guidarci in uno stato confusionario in cui le immagini si accavallano con passaggi bruschi. È il panico in abito da sera.
Se fino a questo punto lo scenario è stato onirico dai toni scuri, una sorta di intimo incubo lentamente si cristallizza in una nuova consapevolezza. Ci siamo abituati. Abbiamo perso ogni illusione e con esse stiamo perdendo noi stessi. Lo scenario cambia: adesso siamo di nuovo nella nostra stanza, punto da cui eravamo partiti. Abbiamo gli occhi aperti e intorno a noi tutto ha riacquistato il suo peso, ma al contempo manca qualcosa. Quel vuoto ci disorienta, sappiamo bene che siamo noi stessi a mancarci. Ci siamo persi nelle cose di tutti i giorni, nei problemi reali, in quelle dinamiche del mondo che lasciano poco spazio all’illusione.
I Baustelle in “Cuore di Tenebra” cantavano: “Ma c’è una luce che cancella il buio e non è il fulmine e non è il sole e neanche il bene del Signore, sei tu amore!“. Ecco, nonostante la nostra estrema fragilità di individui impotenti di fronte al mondo, di fronte a noi stessi e alle nostre paure l’unico sollievo sembra quello che possiamo trovare nell’altro. Sembra un paradosso. Noi esseri così soli e incapaci di conoscere davvero “l’altro”, troviamo nei continui tentativi di comunicare una sorta di speranza. Condividersi e stringersi insieme, diluendo la malinconia e il terrore, fondendoci in un abbraccio ci permette di sospendere il conto alla rovescia a cui siamo destinati. Sospendere il tempo, frantumare i confini e le pareti delle nostre stanze. È come se soltanto scindendoci, o illudendoci, potremo riuscire a sostenere il peso di noi stessi.
Certo, ma come si fa? A volte, semplicemente ci pensiamo troppo.
Rendiamo tutto complicato, creiamo labirinti da cui non sappiamo uscire, nodi stretti ed equazioni impossibili. “A volte è essenziale che sia così semplice, poter galleggiare in aria senza regole, essere fuori dall’equazione, diventare di colpo la soluzione“. Sta per arrivare l’alba, adesso regna un silenzio cosmico. Siamo nello spazio, è la stretta finale. Il definitivo confronto faccia a faccia con le nostre inquietudini. Aspetteremo che qualcuno ci salvi o ce la caveremo da soli? L’odissea spaziale, metafora della depressione e dell’alienazione sociale, ci rende allo stesso tempo Ulisse e Omero del percorso che abbiamo fatto. Domani probabilmente non saremo cambiati; il cambiamento è visibile a distanza di anni. Domani avremo la consapevolezza che per andare avanti è necessario alleggerire il bagaglio che ci portiamo inevitabilmente dietro. Non si può chiudere la porta in faccia alla nostalgia: se suona al nostro campanello non possiamo più scappare. Non possiamo temere il passato perché ci renderebbe difficile guardare avanti.
“Arriva l’alba o forse no, a volte ciò che sembra alba non è“, cantavano gli Afterhours. Ecco, nonostante sia estremamente difficile cambiare e voltare pagina, c’è bisogno di crederci. Abbiamo bisogno di credere di poter stare bene con noi stessi, di poter essere compresi dagli altri e sentirci meno soli. È una questione di fede in fondo.
Il disco di Tōru è un’opera importante.
Fa un’indagine estremamente intima e personale, una sorta di autoanalisi che scava all’interno dell’Io dell’autore e riesce allo stesso tempo a essere così universale. Non a caso immergendomici ho usato la prima persona plurale. Ci mette inevitabilmente davanti a uno specchio, uno di quelli in cui magicamente puoi entrare e immergendoti non fai altro che addentrarti nello scrigno dove sono contenuti i tuoi incubi, le tue speranze, i ricordi, i luoghi. Domani non pretende però di essere la mappa per mezzo della quale ognuno di noi possa orientarsi tra le sue cianfrusaglie. La nostra zavorra resta la nostra zavorra: il percorso è estremamente personale. Tōru con questo disco tenta di annullare l’abisso che ci separa in quanto esseri incapaci di conoscere l’altro per quello che è davvero. Con eleganza e la grazia di un artista prova ad aprire un varco, una porta d’accesso su quello che è stato per lui un momento molto difficile. Per questo motivo “Domani” è un disco che va ascoltato più volte, con attenzione che, in questo preciso periodo storico, può consolarci. Può in qualche modo comprenderci e farci sentire meno soli, credo che paradossalmente possa perfino ascoltarci.
Ascolta qui “Domani”, disco d’esordio di Tōru
Foto in copertina di Matteo Casilli
Raffaele Nembo Annunziata
Sono Raffaele Nembo Annunziata, direttore e fondatore de Le Rane, spero che sia stato di tuo gradimento ciò che hai trovato da queste parti. Torna presto!