C’è una frase che riecheggia periodicamente, specialmente nei momenti di crisi, attribuita all’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Nel 2010, di fronte alle insistenti richieste di fondi dell’allora collega e ministro della Cultura Sandro Bondi, la risposta di Tremonti, secondo i giornali, fu: «Non è che la gente la cultura se la mangia». L’economista ha sempre smentito di averla mai pronunciata, e noi ci crediamo, ma forse questa frase detta/nondetta nasconde un pensiero comune a molti.
E di pari passo il Presidente Conte, durante la conferenza stampa di presentazione del Decreto Rilancio, il 14 maggio, ha alimentato quei luoghi comuni che tanto girano attorno al mondo della musica e della cultura in generale attraverso la famosa frase: “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire“. Non c’è malizia, c’è un latente atteggiamento di sottovalutazione riguardo un mondo che, specialmente in Italia, viene visto come svago, tempo libero. Un atteggiamento sintomatico della malattia che questo Paese non riesce a curare. Che non è soltanto il Covid-19.
La situazione è sicuramente la più grave crisi vissuta dal dopoguerra in poi.
Ma il deficit strutturale che vari settori hanno vissuto, proviene da lontano. La risposta che ne è venuta fuori è stata frenetica nel voler e dover accontentare tutti. Questo atteggiamento, alla fine, porta inevitabilmente a trascurare settori e categorie. Non è un caso che anche in questo momento storico l’attenzione che viene attribuita a istituzioni fondamentali, come l’istruzione o la cultura, sia ridotta a flebili provvedimenti. È tutto frutto di un modo di ragionare simile alla presunta (e smentita) frase di Tremonti sopra riportata o all’intenzione bonaria (vogliamo crederci) di Conte, nel non trascurare gli artisti.
In quest’epoca digitale il ruolo e l’importanza dei libri, dei giornali, delle canzoni, non è diminuito. È aumentata piuttosto la consapevolezza di quanto siano importanti per le nostre vite, così come, di pari passo, sono aumentati i metodi di fruizione, illegali e legali. Difatti il mercato discografico è crollato e l’indotto maggiore, per coloro che fanno musica, proviene dai concerti. Proprio quei concerti che animavano un locale storico milanese, il Circolo Ohibò, che ieri ha annunciato la chiusura definitiva attraverso un post sulla loro pagina Facebook.
Lo storico locale di Via Benaco 1, che da 8 anni era un punto di riferimento nella zona 4 di Milano, è stata la prima realtà a pagare a caro prezzo gli effetti del lockdown.
Chiuso per sempre. Centinaia di messaggi di solidarietà sotto il post che chiedono a gran voce l’intervento di qualcuno. Ma di chi? Non è normale che le comunità debbano sperare in continue campagne di crowdfunding per mantenere in vita istituzioni culturali. Il Circolo Ohibò era, e fa male utilizzare il passato, uno spazio che ha dato gran voce ai generi musicali più sconosciuti, accogliendo soprattutto chi ancora non era conosciuto al mondo mainstream. Un piccolo tempio della cultura, tutto italiano, di cui andar fieri.
Il tema dei luoghi e degli spazi dedicati alla musica, forse, non è mai stato all’ordine del giorno negli ultimi anni. Eppure di esempi virtuosi ce ne sono. Come Milano che ha visto interi quartieri rinati grazie al contributo di circoli, locali e spazi, che assumevano oltre a un’importanza culturale anche e soprattutto un ruolo sociale all’interno della comunità. Quando si riuscirà a comprendere la rilevanza fondamentale che ha la musica all’interno delle nostre città, e quindi dell’Italia? Che #senzamusica, citando l’hashtag che negli ultimi giorni sta girando sui social, non si può stare? La frustrazione per la mancanza di una risposta a tutte queste domande banali è riassunta perfettamente in un tweet di Carlo Pastore, direttore artistico del Mi Ami Festival.
Ci stiamo provando ma è dura organizzare eventi (anche piccoli concerti) con le attuali norme. Fa girare i coglioni, nel frattempo, vedere che là fuori ognuno fa come gli pare. Perché noi no, allora? Sbloccate il necessario prima che l’illegalità diventi inevitabile. #senzamusica
— Carlo Pastore (@carlopastore) June 9, 2020
Il presagio è che nei prossimi mesi si continuerà a litigare sui rimborsi per i biglietti, ad aspettare i bonus e i sussidi e a vedere locali abbassare le saracinesche. Ma per ogni posto, come l’Ohibò, che chiude, per ogni concerto e festival cancellato, si aprirà una faglia difficilmente sanabile per il nostro Paese. Perché per qualcuno forse di cultura non si mangia. Ma di cultura, sicuramente, si vive.
Foto di Silvia Violante Rouge