Massaroni Pianoforti, il suo Rolling Pop è una romantica guerra tra amore e disillusione
Quando ho iniziato l’ascolto di questo disco, ho subito avuto chiaro che ci fosse qualcosa di non chiaro. Quel timbro un po’ rauco, un po’ rock e un po’ buttato lì, mi riportava indietro a qualcos’altro. Non per imitazione o plagio, certo. Ma, senza mezzi termini, alcune sfumature della voce di Massaroni Pianoforti, mi ricordavano Baglioni.
E quindi ho riso – interiormente – compiaciuta. Sdoganare gli idoli, soprattutto quelli che dopo quarantanni arrancano pur di trovar ancora una foce dalla quale bere, mi galvanizza e mi diverte.
“Le gattine” (morte) di Massaroni è un inno a certe donne inarrivabili e leziose che incarnano una desiderabilità facile e ormai celebre che, pur dicendo implicitamente che sotto al vestito non c’è niente, si accontenta di una scarna bellezza. La quale, molto spesso, finisce per consumarsi nel momento stesso in cui la si esibisce.
Gianluca ha 43 anni e si vede.
Non perché se li porti male, ma perché se ne sente il peso in quello che canta. Nel modo in cui gioca a viso aperto col rock, destreggiandosi bene in un casino di suoni che trovano una loro coerenza nel fare da accompagnamento al racconto di una consistente fetta di vita vissuta. Un bagaglio importante che trasforma il bagliore negli occhi, quel modo innocente di lasciarsi trasformare dal fluire degli accadimenti, in una cosciente incoscienza.
Massaroni però, non gioca sapientemente solo con la musica. Il lessico è leggero, come la musica degli anni ’70. Se nella traccia che apre il disco, Le colline sono in fiore, in Mattomondo il mare è nero, nero è il mare.
Ma quella che potrebbe sembrare a primo acchito una invettiva sulle vacanze, descrive l’abilità o la condanna di chi riesce a trovarsi. Ad approdare nel baratro del proprio io e assaporare questi fugaci momenti di lucidità, senza lasciarsi schiacciare da un mondo fatto di confini e definizioni.
Mattomondo, mattomondo /Non sei il luogo dove approdo/Tu hai i confini, io l’ignoto.
La monotonia di una quotidianità scandita da rituali e convenzioni sociali è ben esibita nel singolo “50 settimane”. Gianluca si sente legato a queste norme implacabili, quasi come un cane al guinzaglio, privato del diritto di sognare. Perché la sua felicità dipende dai logoranti ritmi di una “vita operosa” che stabilisce in partenza quando dobbiamo essere inibiti o (cani) sciolti. E come biasimarlo: Se mi vuoi paragonare/Se penso a che peso aspettarti/Di notte al guinzaglio/Invece di sognare.
Gianluca, però, in queste undici tracce è anche un soldato. Le metafore belliche punteggiano l’anima graffiata di un viaggio rock, conferendo a questo Rolling Pop un retrogusto decisamente spigoloso.
Massaroni ha superato i quaranta, per questo sembra essere pronto a inghiottire il sapore amaro di quelle pillole amare che a dieci anni sembravano la cosa peggiore che potesse capitarci. Eppure la sua armatura si scalfisce. Di fronte a una bellezza che non sfiorisce ma se ne va in giro inconsapevole, sincera e leale. Come quei fiori che se ne fregano di quanto forte sia il vento e si lasciano semplicemente attraversare.
“Sei bella da piangere/ e il tuo respiro che butto dentro/ e mi riprendo in te”.
Non ci resta quindi che alzare la visiera di questa armatura, per sprofondare nella poltrona sbiadita di un cinema e contemplare un film di cui anche Massaroni sembra spettatore. “Popcorn (sei un bel fim per tutti)”, descrive l’amore da un’altra prospettiva: disarmarsi di fronte ad una spada, consapevoli che questa ci colpirà in modo implacabile, per sperimentare la fine, guardarla negli occhi e vederla allontanarsi. Immaginandola, forse, farsi preda per altri sguardi, altre trame, altre vie.
Del resto, qualcuno diceva: “Tutte le canzoni finiscono. Ma è questo un buon motivo per smettere di ascoltare la musica?”
I titoli di coda scorrono con “Rolling Stone” e Gianluca è bravo a prenderci a schiaffi, con una serie di assonanze, giochi di parole ed endecasillabi degni di essere accartocciati nei baci Perugina. Che sanno un po’ di cioccolato e un po’ di disincanto: “Con gli eserciti dei limiti/Ci siamo spinti oltre/Pur restando sempre ai margini”.
Insomma, “Rolling Pop” è la ferita di una guerra ancora aperta, perché non saremo mai troppo grandi, troppo adulti, troppo cinici, per rassegnarci all’impossibilità di cogliere, anche solo per un istante, quel mistero che sfugge ad ogni regola, ad ogni calcolo, ad ogni meccanismo di difesa: l’Amore.