Hån, “Gradients”: la sostenibile leggerezza dell’essere controcorrente
In quello che è il periodo più florido (quantomeno dal punto di vista quantitativo) della musica italiana è paradossale notare che, nonostante l’inglese appartenga alle nuove generazioni in modo quasi automatico, la quasi totalità della discografia ha scelto di restare “fedele” all’uso della lingua italiana. In questo panorama è follemente coraggiosa o coraggiosamente folle (scegliete voi l’avverbio e l’aggettivo) la scelta di Hån di scrivere e cantare in inglese. Sia ben chiaro, questo non rappresenta un unicum (penso ai primi lavori di Joan Thiele, a Yombe, o fino all’ultimo album di Wrongofyou), ma è senz’altro una decisione forte che si scosta nettamente dalla proposta più diffusa che un ascoltatore medio incontra.
Il salto mortale della lingua, oltre a immaginare che in realtà metta a proprio agio l’artista, ha il vantaggio che l’ascolto molto probabilmente risulti più “globale”. La linea vocale e l’arrangiamento si amalgamano nell’orecchio, fondendosi. Molto spesso nell’utilizzo della lingua che normalmente parliamo, veniamo distratti dal ritornello, o comunque prestiamo subito un’attenzione maggiore alle liriche. Ma di Hån, oltre alla scelta linguistica, stupisce la maturità artistica nonostante la giovane età. Infatti il prodotto confezionato (non c’è nessuna accezione negativa da parte mia nell’utilizzo del concetto di “prodotto”) risulta perfettamente equilibrato a tal punto che è difficile capire se sia “nata prima la cantante o la canzone”.
Gradients è un Ep di 6 tracce in cui la misura è secondo me la parola chiave.
Non ci sono fronzoli od orpelli: è tutto apparentemente semplice e immediato. Ma semplicità ed immediatezza sono spesso traguardi difficilissimi da raggiungere, anche per artisti più navigati. L’ep è una raccolta di alcuni singoli usciti già nel 2019 (Gymnasion e It’s better when i sleep) e nel 2020 (Lens e Jenny). Questa dilatazione temporale, però, non intacca minimamente l’organicità dell’ep stesso, che risulta assolutamente coeso e coerente nello scorrere la tracklist.
Nel suono c’è sicuramente tutto il background del trip hop anni ’90, quel downtempo che ha permesso a gruppi (e scusatemi se il paragone può sembrare eccessivo) come i Lamb o i Morcheeba di ritagliarsi uno spazio fondamentale nella storia della musica. La voce è sospesa, sulfurea ma incredibilmente solida e diretta, fluttua sulle tessiture ritmiche e sui pad tastieristici in modo convincente, come un surfista professionista sulle spiagge californiane.
La sessione ritmica è essenziale, ma questa è conditio sine qua non per un progetto del genere. Nulla deve catturare l’attenzione più di qualsiasi altro elemento. Come dicevo è la misura il punto forte: un equilibrio sonoro che scorre perfettamente dall’inizio alla fine dell’ep. Un’elettronica minimale, ma non fredda, avvolgente e coinvolgente al tempo stesso senza correre il rischio di apparire “artificiale” o “sintetica”
In una visione più globale, sicuramente Hån si colloca insieme ad altre cantanti di fama mondiale che percorrono quello stile.
Il primo nome che mi viene in mente è Lorde. Ma il fatto di non essere “figlia” del mercato anglofono, la rende una pietra preziosa nel panorama italiano. Basta ricordare lo stupore che generò Elisa al suo debutto per il solo fatto di cantare in inglese in modo così credibile.
Riprendendo il dubbio iniziale, credo che sia una scelta follemente coraggiosa quella di Hån. È indubbio che in questi anni “uscire dai binari” del mercato italiano può apparire pericoloso, ma sono altresì convinto che la sincerità e la spontaneità di progetti come questi renda proprio il panorama italiano degno di nota e qualitativamente valido.