Tutto è hype, nulla è hype.
No, non è un nuovo slogan pubblicitario. Il termine inglese (traducibile in italiano come pubblicità/promozione intensa e stravagante) si candida ad essere uno di quei sostantivi capaci di individuare una precisa fase della nostra vita quasi come Birkenstock, Gigi DAG o Walkman. Nella romantica rappresentazione degli ultimi dieci anni di vita musicale (e non), tra l’esplosione della vita social degli artisti musicali e lo stream selvaggio (foriero di opportunità e deturpanti fallimenti), hype é divenuto quasi un intercalare, un vocabolo prezzemolino da utilizzare in ogni dove.
Armato di pazienza e Wikipedia, fonte inesauribile, trovo due interessanti curiosità: The hype è sia il nome di un gruppo musicale fondato dall’eterno David Bowie che il nome originario degli U2.
Perché tanto interesse? Perché due personalità tanto diverse come Bowie e Bono avevano pensato ad un nome del genere? La risposta, insperata e capace di cambiare il vento della discussione, viene da un semi sconosciuto album del 1981 di Robert Calvert. Cantante e poeta sudafricano, pubblica Hype (The Songs Of Tom Mahler) come ideale colonna sonora del suo unico romanzo Hype. È la parabola di una rock star, dalla ascesa al declino. È la critica al sistema musicale, alle logiche di mercato, alla de-valorizzazione del talento in favore del profitto.
Posso immaginare cosa state pensando. No, non c’entra il mainstream, Spotify, i social. È il 1981 non il 2020.
Essere sulla cresta dell’onda e credere che la tempesta del successo non finirà mai. Essere agli ultimi spicci e comprendere quanto serviranno per spese indispensabili. È la parabola dell’hype ma non dall’ascesa alla caduta bensì dall’ascesa alla consapevolezza.
Consapevolezza. È questa la parola chiave del disco d’esordio di Sabia. Ed è un concetto legato a questa (lunga) introduzione.
Antihype superstar è la bolla che esplode, la necessità di respirare quando l’aria nella stanza è troppo pesante. Troppo facile, però, valorizzare all’estremo la tesi di Sabia. Ergersi a superstar di un movimento contro le nefandezze del mondo della promozione musicale può essere (nelle intenzioni) motivo d’orgoglio ma anche profondamente nefasto. Troppo facile esaltare il concetto.
Quindi, cosa vuole dirci Sabia? La consapevolezza di cui ho accennato è reale o una incredibilmente astuta operazione commerciale?
Il disco si apre con “Nelle vite degli altri”. Il testo è cupo e sanguinante. Il protagonista si immagina lontano dai propri problemi e pensa a quanto sarebbe bello poter indossare i panni altrui. Fermiamoci un attimo: essere un cantante, un artista è qualcosa che tutti prima o poi abbiamo sognato. In un epoca in cui tutto è pubblico, in cui la notorietà è anche condivisione della propria perfezione, Sabia indietreggia. Vorrebbe capire il perché di tanto rancore verso se stesso. La pagina nera del suo cuore abbraccia anime anonime per non sentire dolore. Sentimento che, completamente capovolto, è la chiave di “Ascolta e ripeti in silenzio”. È sempre il dualismo Io-umanità il banco di prova: la critica qui è feroce. Parlare troppo senza saperne nulla. Il valore del silenzio inteso non come censura ma come valore aggiunto alla crescita personale. Le due tracce sono interconnesse in un cerchio perfetto di malinconia e protesta. Vorremmo essere qualcuno che in realtà non ci conosce: non conosciamo il volto di chi giudica le nostre azioni.
È il primo anello della catena che ci soffoca. Una distanza tra quello che vorremmo essere e che in realtà non siamo e non accettiamo.
Il tema della distanza stringe la fune in maniera più intima in “Occhi d’oceano” e “Cattivi pensieri”. Testi apparentemente diversi, sono legati da una forza centrifuga che ci immobilizza. La distanza è emotiva in “Cattivi pensieri” e fisica in “Occhi d’oceano”. Il centro del mondo, partenza e punto d’arrivo di ogni evoluzione del proprio essere, sembra non poter essere alla nostra portata. Siamo inadatti a descrivere i nostri sentimenti, nello spiegare le nostre azioni.
E qui dobbiamo fermarci. Dopo aver dubitato dei propri passi nei confronti del mondo, Sabia si perde nell’immobilismo emotivo che non permette di partire o urlare i propri sentimenti. Ma perché? Non siamo tutti in fondo in grado di fare una foto, postarla e scriverci sotto una frase ad effetto? Non siamo la generazione dei tickets last minute? Ah, no?
Il non essere dei super uomini, le nostre perplessità con errori e limiti, ritornano prepotentemente in “Lezioni di Geografia”. La traccia, una apolide omelia, è il sunto di tutto il pessimismo delle coordinate di Sabia. Dalla sua casa al pianeta Terra, il grido di allarme non è un grido, la rabbia non è rabbia, la terra sotto le scarpe non sporca.
Consapevolezza. È un termine che ricorre spesso. Continuando con l’ascolto del lavoro di Sabia, siamo spesso travolti dalla crudeltà e dalla assoluta tranquillità con cui l’artista guarda dentro se stesso e fuori dalla finestra. Il mondo sembra essere un posto inospitale, le relazioni fanno paura, i cantanti non sono superuomini da idolatrare.
“Socialite” e “Antihype superstar” sono rimaste volutamente alla fine di questa analisi. Non per suspense, non per dimenticanza o per una linea narrativa da seguire.
L’album di Sabia è oltremodo coerente con il messaggio di base e con le sfumature inevitabilmente aggiunte: non vi è un punto da cui partire, non c’è un traguardo da raggiungere. Semplicemente, rappresentano le tracce da ascoltare per comprendere a pieno la poetica di Sabia. Dopo tanta critica e sofferenza, alla fine c’è il sole. Si, perché il nichilismo narrato non è fine a se stesso. L’umanità e l’Umanesimo di Sabia si manifestano in una speranza di tempi migliori.
Sabia è a suo modo un rivoluzionario. Si, un garibaldino con ologrammi elettronici. Soffre nel guardare il mondo e soffre nel non riconoscersi allo specchio. O forse si riconosce troppo. Vorrebbe prendere per mano i grandi ideali con cui è cresciuto, vorrebbe Amori sempre con la A maiuscola.
È un guerriero solitario. In un mondo di rumori, lui è l’Antihype superstar.