Alberto Bianco ha trovato un nuovissimo dio: adesso certo che sta bene
È curioso che, quando ho intervistato Bianco per la prima volta ho esordito precisando che dietro al nome, o forse sarebbe più corretto dire al cognome) d’arte, si cela Alberto. E oggi il cantautore di Torino presenti il suo nuovo lavoro, “Certo che sto bene“, come Alberto Bianco.
Un sottile ma importante cambio di impostazione che riflette l’importanza della vita vissuta che dà nuova linfa e ragion d’essere a queste 10 canzoni che parlano di amicizia, di viaggi, di amore, di nostalgia, di cartoline che volano al vento, di abitudini, di gratitudine, di riconoscenza.
Non mi capita quasi mai di aggiungere qualcosa ad un disco dopo aver intervistato un musicista, devo essere onesta. Ma dopo aver parlato con Alberto avevo ancora voglia di ascoltare le sue canzoni, di sorridere per i sottintesi che mi ha rivelato, di sentirmi parte di quel gruppo di amici pazzi coi quali ha condiviso canzoni e ricordi.
“Certo che sto bene” è un disco che mi fa pensare all’estate
Mentre lo ascoltavo mi sono rimessa a guardare le foto di tre anni fa, quelle che non riuscivo a guardare perché mi sentivo inadeguata e non all’altezza e invece ora mi riguardo e rivedo la me di allora, i miei dubbi, le mie paure, le delusioni di oggi e i traguardi che ho raggiunto e non posso fare a meno di provare tenerezza.
Il percorso umano di Alberto ci ha consegnato – come lui stesso ha dichiarato – il più universale tra i suoi dischi e la sua dimensione più intima. Forse per quello non ho potuto fare a meno di lasciarmi attraversare dalle sue parole, lasciare che mi ferissero, che mi destassero dal tepore, che mi facessero riconoscere che la maggior parte delle volte in cui commettevo errori, era perché semplicemente non stavo facendo quello che amo fare.
Alberto è un uomo risolto. Un aggettivo forse un po’ abusato di questi tempi ma di cui sono andata a rintracciare la definizione esatta perché volevo assicurarmi che fosse centrato: rendere chiaro qualcosa difficile da comprendere e interpretare; sciogliere.
Sicuramente Alberto ha sciolto i suoi nodi ma soprattutto ci ha permesso di comprendere che il segreto per non essere schiavi del dolore è afferrarlo e saperlo trasformare in arte.
Lo abbiamo intervistato pochi giorni dopo l’uscita del suo disco.
Cosa ti ha ispirato a intitolare l’album “Certo che sto bene”?
Questo titolo nasce dal prendere coscienza del fatto che siamo comunque persone fortunate, nate nella parte di mondo protetta, soprattutto vedendo quello che succede nei paesi vicini a noi.
Quindi noi dobbiamo renderci conto che siamo fondamentalmente dei privilegiati ma all’interno di questa fortuna ognuno di noi ha una parte di sofferenza, manifestiamo tutti una sofferenza latente per delle cose di cui non ci rendiamo conto, non riusciamo a dare un nome ai nostri drammi perché non riusciamo neanche a capire fin troppo bene da dove arriva quel senso di incompletezza, di disagio. Ma comunque ce l’abbiamo un po’ tutti questa cosa qui, ne sono convinto.
Quali sono le spine che citi nella canzone?
Le mie spine sono tante anche se l’uscita di questo disco è chiaramente un manifesto di quello che mi piacerebbe essere e diventare. Anche se spesso sono date dalle ambizioni che ci diamo noi che stiamo inseguendo ma di cui ci siamo dimenticati l’origine.
Quindi quello che succede è che la società, la velocità e la frenesia, ci fanno credere e ci spingono a inseguire cose che poi non ci interessano poi così tanto.
Mi sono reso conto che la cosa che mi interessava nella vita ed è il motivo per cui ho ricominciato a suonare e che poi è quello che sognavo quando andavo a suonare in sala prove da ragazzino. Sognavo i concerti, di andare col furgone, di arrivare in un locale, montare il banchetto con le magliette, conoscere le persone, bere una birra dopo il concerto col gestore del locale.
La mia idea di musica è sempre stata estremamente pratica, forse perché la mia prima esperienza lavorativa nel mondo della musica era un esempio di quella praticità lì e negli ultimi anni, un po’ per il modo in cui si produce e si ascolta musica, non dico che me l’ero dimenticato ma sicuramente mi ha fatto bene farmi un esame di coscienza e riconoscere che alla fine quello che speravo da bambino alla fine l’ho ottenuto e lo sto facendo anche da un bel po’ di tempo. Quindi di cosa devo essere insoddisfatto?
Hai collaborato con artisti come Dente e Margherita Vicario per questo album. Come è stato lavorare con loro e quali qualità hanno portato al progetto?
Sono persone con le quali ho già collaborato in passato e ogni volta c’è qualcosa di sorprendente ed è il motivo per cui non era la prima volta e non sarà neanche l’ultima (sorride nda).
Sicuramente hanno una visione comune alla mia ma allo stesso tempo delle diversità da cui io adoro attingere, ogni giorno e ogni ora che passo con loro. Sono persone che hanno un’abilità pazzesca nel fare questo mestiere e sono estremamente e fortemente amici miei.
Gli voglio un bene dell’anima quindi il valore delle parole e delle melodie che pensiamo e studiamo insieme si eleva anche in virtù di questa stima reciproca.
“Maremoto” parla di sensazioni adolescenziali viste dalla prospettiva di un adulto. Puoi elaborare su come i tuoi ricordi del passato influenzano la tua musica oggi?
Assolutamente sì. La prima cosa che faccio quando mi viene voglia di scrivere, è chiudere gli occhi e partire da un’immagine di me bambino o comunque adolescente. È come salire su uno scivolo. Io prima di lanciarmi dallo scivolo, devo scalare questa montagna fatta di ricordi che partono da quell’età lì, in cui si provano le prime sensazioni di amore e odio, di bene e male, di felicità e tristezza.
Ed è da lì che poi bene o male, secondo me la personalità di un individuo prende forma e si manifesta nel mio caso tramite canzoni. Sono molto felice di aver vissuto quella fase della mia vita in maniera molto profonda e anche solitaria, volendo. Perché è stata fondamentale per sviluppare quella sensibilità su cui ancora oggi sto campando. (ride nda).
Come è nata l’idea di “Fuochi d’artificio” e qual è stato il contributo di Federico Dragogna al brano? C’è una frase che mi piace molto che è “Crudele come una festa comandata”, perché mi trasmette l’idea di cosa vuol dire star soli con gli altri. Puoi approfondirla?
Sicuramente questo pezzo ha una chiave di lettura nostalgica e malinconica. A me la cosa che ha fatto impazzire quando ho letto per la prima volta il testo di Federico è che mi ha confessato di averci messo molto poco a scrivere questa canzone, perché era che con poche frasi che era come se fossero lì da sempre, aspettavano solo la giusta base musicale.
La cosa che me l’ha fatta sentire molto vicina e molto mia è questa sensazione di cercare di passare attraverso questo periodo luminescente che non corrisponde necessariamente ad un periodo felice, che è una cosa che succede tanto soprattutto a chi lavora nel mondo della musica.
Cioè, non è detto che quando ci sono tutti i riflettori accesi su se stessi questa cosa coincide con un momento di felicità assoluta.
“Le abitudini della domenica” è una dichiarazione d’amore. C’è qualcosa che non hai ancora detto?
Arrivato a quest’età, in questa fase del rapporto con la mia compagna, nonché moglie, nonché madre di mio figlio, la mia esperienza è sempre stata basata sulla trasparenza e sulla sincerità.
Ciò in ogni tipo di rapporto, anche a costo di fare casini perché poi ho capito che se uno dice sempre quello che pensa, rischia di creare nelle altre persone anche un po’ di confusione. Detto questo, fino ad ora mi sembra di aver detto tanto, non so se ho detto tutto ma penso che se non l’ho fatto è perché magari determinate cose non le ho percepite.
Hai dichiarato di essere diventato “un po’ Ettore” e “un po’ Elena”. In che modo essere padre e compagno ha influenzato il tuo processo creativo?
Essere padre mi ha influenzato tantissimo perché – uso un’immagine di Elena, non mia – è come se il mio cuore non fosse più nel mio corpo ma appartenesse ad un altro. È come se la sensibilità, l’attenzione nei confronti dell’animo umano, abbia fatto un balzo in avanti.
Cosa ti mancava prima?
È una cosa che fin quando non diventi genitore, non comprendi fino in fondo. Perché nessuno riesce a spiegare cosa succede esattamente quando hai un figlio.
Ora comprendo la portata di quella frase che sembra fastidiosa quando la pronunciano i genitori “Chi non ha un figlio non può capire” ma non perché gli altri non abbiano gli strumenti per comprendere. Il punto è che noi genitori non abbiamo le parole. Non esistono delle parole che possano descrivere questo senso di pienezza di spirito. Che non è neanche giusto come te l’ho detto. Forse è come la sensazione che può provare un fedele, praticante che scopre il proprio dio. Diciamo che io ho scoperto un nuovo dio, ma è un dio nuovissimo a cui sono io che insegno le cose.
Dopo 12 anni dalla tua prima uscita, come descriveresti la tua evoluzione musicale?
La descriverei libera, nel senso che nel corso degli anni ho avuto il privilegio di lavorare con persone che mi hanno sempre spronato a creare qualcosa di diverso senza avere la pretesa o imponendomi di somigliare al me stesso di prima. Un’evoluzione direi sana e anche molto naturale.
Rido seriamente è la mia canzone preferita perché ci ho visto dentro un po’ la metafora goffmanniana della maschera. Cos’è che ti fa commuovere, qual è la dimensione di te che non si vede sul palco?
Sicuramente c’è un lato di me divertente che non tengo propriamente nascosta ma magari non viene fuori così spesso. Una cosa che mi fa commuovere in questo istante, in questo momento della mia vita, è la gratitudine che sto provando verso chi mi sostiene in questa mia impresa che sembrava quasi impossibile di suonare. E ci sono delle persone che lo fanno così autenticamente che per me è commovente.
“Hai imparato a proteggerti dalle onde e dai venti” di “Mare moto” mi fa pensare a “La collina dei ciliegi” di Battisti, è un riferimento voluto?
Calcola che ho ascoltato tantissimo quei dischi di Battisti quindi mi scorre abbastanza nelle vene, quindi ti direi di sì anche se non è voluta. Ci sono parole che ormai tendiamo ad attribuire a certi autori e a certi cantanti magari perché le hanno usate tanto Mentre la scrivevo mi ricordo che me ne sono accorto e mi sono detto “Figo”.
C’è un genere o un artista che ascolti e che riesci ancora a sorprenderti?
C’è un autore che riesce a sorprendermi sempre a volte per la musica, altre per i testi che è Marco Castello.
Avevamo già parlato di Alberto Bianco qui e qui