Andrea Laszlo De Simone: “la mia musica: una fortunata ma complicata collateralità”
Andrea Laszlo de Simone racconta di essersi avvicinato alla musica fin da bambino, un po’ come accade per la grande maggioranza degli artisti. Espressione di un bisogno intimo e personale, la sua musica è sempre stata concepita per rimanere fra le mura di casa dove i testi e le melodie non hanno bisogno di compiacere alcun pubblico. Traccia dopo traccia Laszlo compone musica, non si dà fretta: scrive, aggiunge, cancella, sperimenta.
Trova finalmente il modo di vivere la sua musica, con i suoi tempi e le sue nuove esigenze, quelle di un padre; esce “Uomo Donna” e tutti ce ne innamoriamo.
In occasione del suo concerto al Biografilm Park gli chiediamo di raccontarci qualcosa in più.
Leggendo i tuoi testi ci si accorge che fai spesso riferimento ad uno dei 5 sensi: la vista. Infatti parli di sguardi, di occhi…C’è qualcosa che ti lega in modo particolare a questo? Cosa significa per te?
In realtà no, anzi; sono una persona che nota pochissimi dettagli e potrei percorrere la stessa via cento volte continuando a credere di non esserci mai stato ma ogni tanto la musica ha bisogno di immagini e viceversa. Con gli occhi chiusi non si usa la vista, ma vediamo comunque quello che l’immaginazione vuole mostrarci.
I tuoi testi si possono definire un po’ degli ossimori, sentimenti e stati d’animo contrastanti si alternano, la felicità lascia il posto all’avvilimento e viceversa, come definiresti la tua scrittura?
Raramente scrivo un testo. Le parole le canto sulla musica; credo che ogni sentimento sia contrasto e che le emozioni in generale siano concatenate fra di loro come il giorno e la notte.
Come è nata la collaborazione con 42Records? E con il tuo management The Goodness Factory?
Al termine delle registrazioni del disco, durate poco più di un paio d’anni, pubblicai su YouTube un video fatto per gioco. Il video era quello di “Uomo Donna”; da li è cominciato un po’ tutto e grazie al lavoro di Daniele (bassista/manager), supportato anche lui da The Goodness Factory, e all’interessamento di Emiliano Colasanti e Giacomo Fiorenza di 42Records ci siamo trovati presto intorno a un tavolo e ci siamo piaciuti.
Nel contesto indipendente italiano, quali sono state le difficoltà che hai incontrato come artista?
Non posso dire di aver trovato difficoltà particolari; l’unica difficoltà reale è stata quella di iniziare a pensare di fare davvero il musicista. Non è mai stato il mio sogno, per giunta ho un bellissimo figlio di quasi 6 anni ed ho temuto seriamente che un mestiere come questo non facesse per me. Ora sto cominciando ad ambientarmi, diciamo.
Che tipo di rapporto hai con il pubblico?
Non sono molto bravo a rapportarmi, durante i concerti non parlo praticamente mai. Ho conosciuto però un sacco di gente simpatica e non mi dispiace affatto relazionarmici dopo una serata. Sarebbe interessante capire più che altro che rapporto ha il pubblico con me….
Il video di “Vieni a salvarmi” è molto particolare, sia in termini di immagini che di dinamiche. Come è nata l’idea di creare questo video?
L’idea del video è la somma di due idee, una di Gabriele Ottino e una mia che si sposavano perfettamente assieme. Ci siamo divertiti molto a far combaciare i due spunti; alla fine è un video che si è scritto quasi da solo. Un naufrago in una realtà illusoria.
Foto di Alfredo Freddy De Filippi
In un’intervista hai detto di non essere un appassionato di musica e di non aver mai comprato un disco. Come sei arrivato a diventare un cantautore e ad avvicinarti al mondo della musica? A cosa ti ispiri per scrivere le tue canzoni sia in termini di testo che musicali?
Mio fratello è stato il punto cardine. Matteo (cantante dei Nadar Solo) ha sempre suonato ed ha sempre amato la musica fin da quando eravamo molto piccoli; io preferivo il pallone in realtà ma lui era il mio fratello maggiore e lo ammiravo molto. Ho suonato la batteria per lui più o meno per 14 anni. Ma non è che io sia “arrivato” a fare il cantautore. Io ho sempre scritto canzoni così come i bambini giocano con i lego. E giocavo anche con i lego! Non si scrivono canzoni perché vuoi imitare qualcuno, si fanno le cover in quel caso; si scrivono perché è un bel gioco, perché è appassionante, perché fa bene alla salute, ma soprattutto perché lo fai e basta. E non lo sai il perché.
Non compro dischi, non ho una cultura musicale, ma di certo non si può dire che io non apprezzi la musica! Solo che ho sempre amato di più farla che ascoltarla, non ho la pazienza né per leggere un libro né per ascoltare con attenzione un disco, né per dormire; mi sembra di rinunciare a del tempo che mi servirebbe ad esempio per scrivere una canzone…quindi normalmente dopo due minuti cedo e vado a fare una canzone…e poi se devo essere sincero non amo avere dei riferimenti perché tolgono le idee.
Conoscere troppe canzoni vorrebbe anche dire aver paura di accostare due accordi perché hai la sensazione che qualcuno li abbia già accostati nello stesso modo e rischi di rinunciare ad un sacco di melodie e di ritrovarti come un pittore che non può usare il rosso o il blu…mentre per fare musica bisogna essere liberi di usare tutte e sette le note senza paura. Mi è capitato di ascoltare delle belle canzoni e di essere triste perché ascoltarle mi aveva chiuso la porta creativa in quella direzione. Mi tengo stretta la mia piccola e innocua ignoranza.
Ci sono artisti che non ascoltano per scelta il risultato finale dei loro lavori. Tu hai mai ascoltato il tuo disco per intero tutto d’un fiato? Se si, cosa hai pensato/provato?
Certo che l’ho ascoltato. Più volte, anche perché il senso di questo disco è quello di un’unica canzone di 80 minuti circa e va ascoltata per intero. Ho lavorato ad ogni dettaglio produttivo, dalle registrazioni all’arrangiamento e senza ascoltarlo sarebbe stato impossibile lavorare ai suoni…però si, ecco…non lo ascolto da moltissimo. L’ultima volta che l’ho ascoltato ho provato orgoglio e tenerezza. Orgoglio perché mi sono impegnato tanto per farlo, tenerezza perché mette in evidenza tutti i miei limiti, la mia mediocrità e tutto quello che ho da imparare. Ma comunque è chiaro che se fossi soddisfatto di quello che faccio avrei già smesso da un pezzo di fare musica e sarei passato ad altro.
Oltre che essere un cantautore, sei anche padre. Come riesci a conciliare queste due realtà?
Ecco, questo era il punto inizialmente ed è anche per questo che pur avendo sempre scritto e registrato canzoni non volevo pubblicarle né tantomeno farne un mestiere. Nel tempo però grazie alla band che è una famiglia vera, non una band di turnisti e grazie all’atteggiamento e alla disponibilità di 42 records ho iniziato a capire che è possibile, l’importante è procedere sempre con piccoli passi e stare a vedere cosa succede. Se dovesse diventare troppo complicato non esiterei a riportare la musica solo dentro alle pareti domestiche.
Viviamo in un mondo in cui tutti sono di fretta, i messaggi corrono veloci e vengono costruiti in modo semplice. Le tue canzoni sono piuttosto lunghe e c’è un’attenzione anche all’aspetto musicale. Da cosa deriva questa scelta?
Deriva dal fatto di non avere finalità. Che ci sia un’attenzione particolare all’aspetto musicale è il minimo dato che si parla di musica, ma queste canzoni non nascono per essere pubblicate, anzi. Evidentemente sono un egoista perché quelle canzoni le ho scritte solo per me. Quello che è successo poi è una fortunata e a volte anche complicata collateralità. Di certo non sono composizioni che nascono per essere divulgate o comunicate a qualcuno. E in ogni caso non sopporto l’adeguamento dei linguaggi alle logiche pubblicitarie. Le canzoni non sono spot, non hanno bisogno di sintesi, hanno bisogno del tempo necessario a dispiegare la propria catarsi.
di Francesca Zammillo
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