Attimi di Sole è la nuova fatica discografica di Apice. L’artista spezzino (ma in cui scorre sangue napoletano), dopo Beltempo (2019) [ne parlammo qui], compie una dantesca discesa metereologica negli inferi dell’animo umano.
Il titolo del disco mostra, senza giri di parole, come gli ultimi tre anni siano stati un lungo inverno su cui adesso possiamo (dobbiamo) necessariamente costruire un futuro duraturo e senza extrasistole emotive. Ma no, non è l’ennesima riflessione sulla pandemia: il futuro di cui parla Manuel è umano, fondato su rapporti umani sempre complessi e multiformi.
Una delle capacità riconosciute ad Apice è la versatilità dei suoi testi nel ricoprire il doppio ruolo di osservatore e narratore. L’artista scruta il mondo senza giudicarlo, vi si cala completamente (realizzandone ferite e slanci) e ne narra ogni aspetto. L’egocentrismo qui è funzione fisica e morale: gli amori, i fallimenti, le delusioni sono micronizzati ed universalizzati. Manuel è alla deriva come tutti noi: vive le nostre crisi, coglie i nostri fiori. Urla come noi.
In questa faticosa opera di raccogliere tutti i suoi cocci, gli attimi di sole servono ad andare avanti.
Raccontiamo spesso di come la musica serva ad andare avanti, per quel suo (fin troppo sponsorizzato) potere salvifico.
Manuel è cantore del quotidiano, dei temporali estivi e degli amori che ancora non hanno nome. Il suo cantautorato, le frasi che sembrano leggerti meglio dello specchio che ogni mattina ti giudica, è maturo e spaurito. In lui, musicalmente, convivono le sillabe dolci ed impegnate delle penne che hanno emozionato transgenere/generazionali degli ultimi 50 anni con le paure delle nostre sporche camerette post2000.
Non disdegna scivolate e velleità elettroniche in pezzi come Precipitare o rock (no, ma dai) in Ortiche ma il suo guano preferito deve essere il pubblico, il vis-a-vis, le mani che accompagnano la musica. Non a caso il disco è accompagnato dal tour “FortApice”: il ritorno agli spazi aperti, senza agorofobie.
Avrei voluto scrivere di meno e lasciare spazio solo alla chiacchierata che ci siamo fatti: abbiamo parlato del disco, del suo ruolo di artista, della crisi del mercato musicale. Una chiacchierata matura.
PS: “Mia” è un pezzo di straordinaria dolcezza. Essere umani e capaci di amare, sempre.
Ciao Manuel! Domanda rompighiaccio: “Attimi di Sole” è il tuo secondo disco. Cosa lo lega a “Beltempo”? Una riflessione anche banale porterebbe a pensare che il cielo si sia riempito di nuvole…
Sicuramente il fatto che l’autore è lo stesso, solo un po’ più cresciuto. Il “beltempo” è un’ideale che ha accompagnato la mia ricerca di serenità nel momento più caotico della mia vita fin qui, quando ho superato la soglia dell’adolescenza per entrare consapevolmente nella fase della maturità.
Sai che studi moderni di psicologi e pedagogisti sostengono l’idea che oggi si rimanga adolescenti fino ai 24-25 anni? E quest’età andrà a spostarsi sempre più verso i trenta, in linea con una società che tutela i propri figli facendoli sentire per sempre tali, intendo “figli”, protetti e intrappolati nella propria condizione di “figli” finché il tempo per crescere non c’è più.
In quella fase di cui ti parlavo prima mi ci sento ancora immerso con entrambi i piedi, ma credo di aver capito, rispetto al mio passato (e presente, a suo modo) di inguaribile e romantico idealista, che la vita sia più nuvole che sole, e che il trucco stia nel godersi gli sprazzi di luce che la tempesta offre. Lo spazio d’inferno che non è inferno raccontato da Italo Calvino, insomma.
Mi collego alla domanda precedente. Ascoltando la tua produzione musicale, viene da etichettarti come un cantore del quotidiano, di attimi che si riempiono di significati e tu che sei lì a registrarli. Che rapporto hai con il tempo? L’ordine naturale dei sogni è per te da ricercare nel breve o nel lungo periodo? Non a caso “attimi di sole” è comunque un costrutto temporale…
Allora, mi sento di essere da sempre uno che ha il “lungo periodo” come naturale portamento di pensiero; nel senso, se faccio qualcosa provo a farlo immaginandomi un futuro, dai piccoli gesti ai grandi impegni relazionali, d’amore o professionali che siano. Non so, credo che il pensiero che più mi assilla sia proprio quello di avere poco tempo, sempre.
Questo mi ha spinto, negli anni, a concentrare lo sforzo di vivere (perché “investire nella fede” è sempre faticoso) su cose che riconosco come “durevoli” perché vicini, in qualche modo, ad una qualche idea di “assolutezza” che ritengo poter essere concreta, credibile. Allo stesso tempo, finisco ancora per procrastinare l’ingresso in quella “quotidianità” di piccole cose, semplici e, appunto, “assolute” che mi piace immaginare nelle canzoni, forse perché appartengo a quella generazione che aspetta da sempre di “diventare grande”, ma poi fa tutto ciò che può per non invecchiare mai.
La tua scrittura pesca a piene mani nel cantautorato italiano. Le situazioni che ti racconti (amori, crepitii, disillusioni) fanno di te una penna delicata. In un mondo in cui tutto è esposto, tu come ti poni? La fragilità e la perseveranza sono compatibili con questo mondo? Il cantautore è “fragile”?
Ti ringrazio per le tue belle parole. Anche la tua è una penna molto delicata. Credo che riuscire a “riconoscersi/ci”, a riscoprire un’appartenenza a certi valori, certe sensibilità e approcci alla vita in altre persone che, appunto, riconosciamo come “simili” sia tutto ciò che ci difende dal naufragare nell’estrema e tristissima mediocrità che ci circonda.
Sapere di non essere “soli”, di poter trovare un pubblico che sia interlocutore e non destinatario passivo di musica, che provi a non farsi consumare, a recuperare un senso di comunità che passi attraverso l’espressione artistica: questo credo sia ciò che tiene viva la fiamma della “canzone d’autore” intesa come ricerca di un timbro che possa essere originale, “riconoscibile”, anche a costo della sofferenza che l’unicità comporta.
Vedi che alla fine questa parola, “riconoscere”, risulta essere forse quella a cui tengo di più: conoscere di nuovo, sentire di star semplicemente riscoprendo un legame che è ancestrale, che è precedente alla tua epifania del momento.
Paga, sì, la perseveranza ad essere onesti con sé stessi, e credo che paghi nella vita prima ancora che nella musica; poi se non sei sincero con te stesso non puoi scrivere canzoni sincere, e insomma da lì in poi perde persino di significato fare “musica” intesa come “espressioni di sé stessi”. Tutti siamo fragili, il cantautore interessante è quello che non ne ha paura di raccontarsi come tale, o almeno così credo.
Sempre riguardo la tua scrittura. Le tue influenze di scrittura principali, il disco che tieni sotto il cassetto. Quale sarà la prossima rivoluzione (se ci sarà) musicale in Italia? Che aspetto avrà l’erede dell’it-pop?
Non lo so, non me lo chiedo sennò tutto diventa una rincorsa al futuro e uno non si gode il proprio presente. Poi in questo senso rimango profondamente convinto del fatto che il “nuovo” per definizione sia ciò che non ci si riesce ad aspettare. Mi auguro, quindi, di essere stupefatto da qualcosa, di non riuscire a capirlo immediatamente, di esserne così spiazzato da non riuscire a smettere di interrogarmene.
“Che ingenuità crederti mia”. L’amore per una donna, l’amore per la musica. Manchevole, fugace. Hai mai pensato potesse distruggerti? L’artista ha sempre la valigia in mano? Non so perché ma ascoltando “Mia”, “Precipitare” e “Traslocare” sento un filo comune. Cosa ne pensi?
Io credo che la mancanza sia sempre il motore di ogni spostamento, e in questo senso dico “viva la mancanza!”. Poi è anche vero che l’amore, per essere amore, prende senso quando riesce a “creare spazi” piuttosto che “colmare vuoti”, almeno secondo me.
Sennò si rischia di consumarlo, tutto questo amarsi, se serve solo a salvare qualcuno o qualcosa. Credo che ciascuno infine si salvi da sé, o meglio, che ciascuno si dovrebbe salvare da sé, che non significa non chiedere aiuto ma piuttosto saperlo capitalizzare, senza aspettare che arrivi il treno della vita a portarci via dal nostro soffrire, dal nostro struggerci.
Dobbiamo essere noi quel treno, e ricordarcelo ogni tanto va bene. Le mancanze non le colmeremo mai, se non riempiendole di altre mancanze. Funziona così: chiodo non scaccia mai chiodo e i buchi aiutano a capire quanti quadri diversi ha visto il muro.
Imparare ad accettarsi, tutti forellati come siamo. Se senti un collegamento tra i brani è un dato positivo, significa che un “timbro” identitario c’è, fosse anche solo “un marchio speciale di speciale disperazione”. Che poi ho detto solo, e invece credo che sia tutto quello che conta, quel marchio speciale.
C’è una paura comune nelle tue canzoni: il terrore dell’essere meno umani, della plastificazione del battito cardiaco. La pandemia ha cambiato le carte in tavola: ci siamo scoperti nudi, spesso emotivamente pigri. Quanto la narrazione musicale ha risentito di questi due anni di doloroso silenzio? Come artista senti un bisogno forte di raccontare e metterci in guardia da noi stessi?
Sì, ho tantissimo paura di essere cambiato. Che sono cambiato è certo, ma la direzione non la so. Ogni tanto mi fanno paura certi ragionamenti che faccio nel silenzio della mia testa. Penso che di conseguenza mi venga naturale parlarne nelle canzoni, non tanto per ammonire qualcuno ma per esorcizzare me stesso. Come artista sento un gran bisogno di esprimermi, sì. Ma questo credo sia un tratto distintivo e allo stesso tempo comune dell’uomo, prima che dell’artista.
E già provare ad “esprimersi” in modo libero, e dico “libero” da tante cose, dalla playlist, dalla forma canzone, dai “claim” social (e non perché siano sinonimo di “non-libertà” ma perché quantomeno non fanno sentire libero il sottoscritto). Già provare ad esprimersi più “liberamente” dicevo, già provare ad “esprimersi” senza per forza inseguire un pensiero unico (anche quando vuol essere radicalmente diverso), penso sia un atto politico non da poco, al giorno d’oggi. Forse ho dato una risposta un po’ confusa.
Mi collego alla domanda precedente. Il ritorno alla musica live: il disco è associato ad un tour: FortApice. Gli occhi del pubblico sono cambiati nell’ approcciarsi ai concerti? E i tuoi?
Ne parliamo da un po’ insieme ai compagni di banda. Io credo che il pubblico sia cambiato eccome nel corso degli ultimi due anni ed era improbabile che non accadesse. C’è un’innaturale diffidenza che abbiano imparato a concepire come “naturale” e che crea un velo, una placenta spessa che in qualche modo isola, sul palco e in platea, artisti e pubblico.
O almeno, io lo vivo così: come un attraversamento, una volontà di trovarsi a metà strada (quando il feedback c’è, e artista e pubblico riescono a trovare un punto comune di dialogo) avendo la consapevolezza – forse – di partire da più lontano, di essere stati distanziati a lungo, e se le distanze fisiche fai presto a colmarle quelle emotive sono più difficili da ridurre.
E allora succede che nel concerto ci entri pian piano, che inizialmente hai quasi paura ad applaudire perché la “partecipazione” va frequentata e incoraggiata per poter essere esercitata. E se per due anni rimani salvo nella tua “bolla” di auto-assoluzione dalla “partecipazione” vera, quella organica dell’esserci, allora certe abitudini le perdi.
Ammesse che il pubblico italiano le abbia mai avute, certe abitudini. Però credo che la gente abbia voglia di tornare a “partecipare”, anche se ha dimenticato come si fa, anche se nessuno gliel’ha mai insegnato. Chissà che alla fine tutto questo davvero non ci serva a qualcosa; la mia parte più pessimista è propensa per il no, ma chissà. Dal letame nascono sempre i fiori!
La difficoltà di produrre un disco ed un tour “indipendente”. Il poco rispetto delle istituzioni per i lavoratori della musica. Senza cadere nel banale chiacchiericcio, il cosa si può davvero fare per favorire una rinascita della cultura (a 360*) in Italia? È difficile fare rete e non badare al proprio orticello?
Credo che valga un po’ lo stesso discorso fatto sopra. La mancanza genera spostamento e forse tutto questo “mancarci” ci farà rendere conto, prima o poi, che bisogna cercarsi, trovarsi, riconoscersi, non lasciarsi più.
Che il nostro settore fosse ridotto allo stremo della propria dignità era chiaro già da prima. Il COVID ha semplicemente fornito a tutti l’alibi giusto per continuare a dare il peggio di sé stessi e ad accettare il peggio dagli altri, come se nei momenti di crisi sia normale diventare stronzi; io credo che nei momenti di crisi sia necessario invece dare il meglio di sé, tirare fuori dal fondo del barile quello che rimane, capitalizzarlo.
La mia generazione credo soffra il serio problema di non aver mai conosciuto (se non di striscio) il concetto di scena, di essere cresciuta con il mito dell’ “indipendente” senza saperlo più distinguere dal concetto diametralmente opposto di “indie”, insomma, di avere imparato più pose che cose.
Allora poi è normale, tristemente lo dico, che uno si ritrova a non avere gli anticorpi per resistere al richiamo del prodotto di mercato, per sabotare questo “virus” del successo-a-tutti-i-costi che porta tutto a diventare competizione, quest’obbligo ad eccellere, a stravincere, perché o stravinci oppure non campi in questo mondo malato, fino a vedere nel tuo pari, disperato come te, un “competitor” senza nemmeno sapere perché e per cosa state competendo.
Le playlist, il mondo del mercimonio musicale, la difficoltà nel trovare persone che ascoltino davvero le produzioni musicali. Cosa possiamo fare per superare i limiti delle attuali piattaforme di streaming e riportare l’artista al centro di tutta la filiera musicale?
Rimboccarsi le maniche, non mollare né cedere all’idea che il mondo sia davvero come ce lo mettono in testa. Fare rete, come dicevamo sopra. Nel nostro piccolo, il tour di presentazione di “Attimi di sole” lo abbiamo pensato in modo alternativo proprio per questo, con l’obbiettivo di creare un piccolo festival itinerante che potesse coinvolgere, in ogni città, artisti e artiste che stimo e stimiamo.
Un po’ per dare corpo a tante conoscenze che rischiavano di rimanere incastrate nella forma virtuale di messaggi in direct, ma soprattutto per ricordarci che finché non siamo noi “emergenti” a spintonare e ad organizzarci “dal basso” per prenderci uno spazio che meritiamo e dividercelo per respirare tutti insieme allora non potremo lamentarci della desolazione che ci circonda.
Siamo noi, i primi ad essere desolati e desolanti nel nostro becero crederci tutti individui geniali, tutti con in una mano il disco dell’anno e nell’altra la riserva di frasi utili a farsi belli senza fare mai niente. E questo non assolve tutto quel sistema di stampa, agenzie, management, festival, booking, editori, live club e affini che negli anni hanno incoraggiato tutto questo stile competitivo che con le loro classifiche, le loro playlist, le loro direzioni artistiche senza senso, le marchette e gli aguzzinaggi da popolino che contraddistinguono da sempre il savoir faire culturale all’italiana.
E poi, beh, abbiamo bisogno di un pubblico che torni a cercare la musica che vale fuori dalle luci della ribalta, perché se la gente poi non va ai concerti allora tutto questo nostro adoperarci non serve a nulla. Noi, intanto, per “FortApice” abbiamo chiesto a 26 artisti (ventisei) della scena di unirsi a noi, e loro non hanno esitato: credo sia già un punto di partenza non da poco.
Come suonerà “Attimi di sole” tra dieci anni? È una domanda strana ma la nostalgia è un sentimento terribile: cosa proverai riascoltandolo?
Non lo so, ne parliamo tra dieci anni?