Viaggiare indietro nel tempo, anche solo con l’immaginazione è un’esperienza sensoriale bellissima. Woody Allen, in Midnight in Paris, c’era riuscito completamente conducendoci attraverso la mente di uno scrittore nella Parigi degli anni venti. Se poi è la musica a far rivivere certe epoche e certe atmosfere, è tutto così intenso. Pensiamo a Battiato, che in Voglio Vederti danzare con pochissimi secondi di valzer viennese ci riportava nel in un’altra localizzazione temporale e territoriale.
Sulla scena italiana c’è Galeffi, pseudonimo di Marco Cantagalli che con il suo ultimo album “Belvedere”, uscito il 20 maggio per Capitol Records/Universal Music Italy, scrive una lettera d’amore a tutte le cose belle che ci stanno intorno, aiutandosi con valzer onirici che rievocano atmosfere francesi e conducono in scenari interspaziali come se fosse un sogno.
Un nuovo inizio che segue i primi album Scudetto e Settebello (di cui abbiamo parlato qui), molto più romantico e a tratti malinconico che con il suo tappeto musicale ci abbraccia e ci culla; ci sprona ad andare avanti, partendo da noi e dalle cose belle, semplici e genuine che ci circondano. Anticipato dai singoli Appassire, Due Girasoli e Divano Nostalgia, l’album presenta ritmi di valzer e tratti di sound anni 80. Con un’agrodolce malinconia intervallata da espressioni francesi, del tipo “Je t’aime” in Dolcevita, o con una leggerezza dolcissima, che conduce da Trastevere fino a Cartagine in Leggermente, distoglie l’ascoltatore dalla realtà abitudinaria.
Poco dopo l’uscita dell’album, Marco ci ha presentato un po’ il suo album che per chi l’ascolta è una nostalgia di una Belle Époque.
Ciao Marco e congratulazioni per l’uscita del tuo nuovo disco. Vuoi presentarcelo un po’?
Belvedere è un disco che nasce dalle ceneri del Covid, da una solitudine, un lockdown non solo antropologico e sociale, ma anche emotivo. Sono rimasto da solo dopo tanti anni ed è stata un’esperienza di vita nuova per me. Ma il bicchiere mezzo pieno è che tutte queste emozioni mi hanno portato a trasformarle in qualcosa di positivo, ovvero le canzoni di un disco. Tutte queste canzoni nascono post lockdown. Sono molto curioso di vedere come sono cambiati anche i colleghi miei che pian piano stanno pubblicando. Io mi reputo molto cambiato pur mantenendo le mie caratteristiche liriche e vocali ma c’è un aspetto di maturità rispetto agli altri lavori, che sono sempre super belli eh, ma comunque questo è uno step avanti.
Sono estremamente convinto della sperimentazione, nella forza del rischio che è quasi adrenalinico; fare delle cose diverse per me è proprio terreno fertile. Quando vado in una comfort zone, non è la mia cosa. Sono una persona estremamente curiosa, uno zingaro, mi piace cercare idee nuove; il giorno che mi ripeterò significherà che avrò perso un po’ di passione e finora non è mai successo. I tre dischi hanno infatti matrici diverse l’una dall’altra, quindi forse sono sulla buona strada.
Parlando del titolo, che indica una rinascita della bellezza, qual è il tuo “Belvedere” a Roma?
Ahah, è il terrazzo di casa dei miei genitori, che sta in un condominio molto carino. Questo è il Belvedere che ho frequentato di più nella mia vita. Sono anche abitudinario, anche se sono curioso, forse merito del mio ascendente gemelli che mi fa essere un po’ incoerente. La mia risposta è un po’ la conseguenza della morfologia della città di Roma, così grande ma poco efficiente per mezzi e disposizione, che costringe a vivere inevitabilmente e banalmente la vita di quartiere. Non mi piace girar per le vie del centro, per quanto ami Roma e mi piaccia tantissimo, il mio Belvedere è il bar sotto casa.
Parlami del tuo rapporto con la musica francese. Da dove è nato questo interesse? chi ascolti di più? Hai qualcuno da suggerirci?
Ascolto di tutto, se per francese intendiamo anche qualcosa di Belga, potrei dire Stromae, Sébastien Tellier, Daft Punk, Phoenix, L’imperatrice, Gainsbourge, Léo Ferré, Cassius. Sono un divoratore di musica, più di quanta ne faccia. Ascolto tanta musica straniera perché così c’è più possibilità che ti escano idee più nuove, più diverse; di italiana ascolto i maestri: Dalla, Battisti, De Andrè, Tenco, Gino Paoli ma ovviamente anche i grandi artisti come Cremonini, Jovanotti, Vasco. I grandi maestri sono quelli che hanno vissuto prima le canzoni, poi la musica italiana indipendente è entrata in auge. Ultimamente sto sentendo molto anche i Sigur Rós.
Qual è il fil rouge tra “Scudetto” (2017) e “Settebello” (2020) pubblicati con Maciste Dischi e questo album?
Intanto i 3 titoli sono 3 titoli che sanno pure i sampietrini. Scudetto la sanno pure le donne a cui non piace il calcio. Scudetto è una parola come se racchiudesse una hit dentro quella parola. Settebello, invece, tutti almeno una volta ci han giocato coi nonni o con gli amici al mare. Inoltre è un concetto che viene molto usato all’estero e si sposa bene con il disco che ha un sound internazionale, anglosassone o francese che sia, lo trovo moderno.
Per questo ultimo album invece, mi piaceva che ci fosse una parola molto italiana: Belvedere. Tanti alberghi si chiamano “Hotel Belvedere”. Poi l’idea di questo titolo mi piaceva un po’ perché è una parola vintage che non si usa tanto. È una di quella parole “nonne” che mi piacciono tantissimo e poi anche perché dopo due anni in cui siamo stati chiusi a casa e non potevamo uscire fuori, ora possiamo vedere oltre. È un invito a vedere fuori, vedere il bello, allenare la visione al bello che c’è fuori di noi, un invito anche per me stesso. Un po’ leopardiano, a pensarci.
Nella scelta del videoclip di “Appassire” hai scelto un terrazzo di un locale quello dello Sparwasser, un Circolo Arci dove si suonava musica dal vivo e che è stato chiuso, ma è anche un luogo che ha messo a disposizione i suoi spazi per dare un letto e un posto caldo a rifugiati e senza tetto. Ti sei esibito tra due bandiere della pace che sventolavano. Pensi che un artista si debba esporre politicamente e socialmente? Senti il bisogno di trattare di problemi sociali nelle tue canzoni?
Quando se la sente, se è naturale, sì. Appena scoppiata la guerra, era così spontaneo che mi sembrava normale farlo. Quando si parla di guerra e di pace, un’artista che ispira, deve ispirare. Stiamo parlando poi di problemi esistenziali.
Girasoli, “Appassire”, le rose… c’è sempre questo rimando alla natura. Hai il pollice verde?
In lockdown facevo videochiamate a Marco Proietti, uno dei miei migliori amici, musicista, e lui in lockdown mi faceva vedere le sue piante in terrazza o da interno e come crescevano. Il tempo in lockdown ha assunto una dilatazione della nostra vita frenetica da occidentali; il tempo ha ripreso anche una funzione di un ozio, non l’ho più visto come uno scoglio ma come un amico. Quindi ho deciso che per passare il tempo potevo comprare un po’ di piante e l’idea nasce da lì.
Ho iniziato a comprarne un bel po’: pomodori, cipolle, basilico, lavanda, aglio, coltivavo anche le zucchine. Facevo il sughettino con i miei pomodorini, quelli rossi, quelli gialli. Ho fatto delle cene con i frutti della mia vita quotidiana, finché non ho avuto un momento un po’ buio in cui mi sono lasciato andare ed è appassito tutto quello intorno a me, compreso le piante. Poi ho ricomprato tutto, per ora son tutte vive, ma avevo fatto una strage di piante. Da qui è nata la canzone Appassire.
Io ho comprato le piante, ma le lascio appassire / Non ho voglia di niente, di niente che si può dire / E ho perso un sacco di tempo che non ritornerà / La vita è solo un momento di una notte romantica
Quando hai pubblicato “Appassire” e “Due Girasoli”, hai detto che erano 2 brani singoli come per i 45 giri. Che rapporto hai con l’industria musicale e le relative piattaforme musicali? Immagino che tu sia un nostalgico dei negozi di dischi fisici…
Spendo un sacco di soldi in dischi, li ordino e vado sia per mercatini a trovare il disco vecchio; più è vecchio è e più mi piace, basta che funzioni. Sono molto appassionato alla fisicità della musica. Le piattaforme sono poi chiaramente molto utili, a portata di mano ma fanno perdere un po’ di valore alla musica, perché sono dei contenitori così ampi, che c’è fin troppa scelta. Conquistarsi le cose e andarsi a prendere le cose personalmente è tanto più bello. Il vinile poi, non lo puoi skippare e dai inevitabilmente tanta importanza a tutto ciò che c’è dentro che ti piaccia o meno. Sei costretto a sentire il disco come l’ha pensato un’artista. La gente adesso su Spotify ragiona troppo a singoli.
Alcuni brani sembrano appartenere a un’altra epoca, basta pensare a “Un sogno” che definisci valzer onirico. Ti sentiresti più a tuo agio a vivere in un altro periodo storico?
Da quando son nato mi sento a disagio a vivere in questa epoca, non riesco a ragionare come il 99% della gente. Non è che mi sembra di essere nato in un momento sbagliato, perché non esiste né giusto né sbagliato. Quando poi vedo Midnight in Paris e vedo Gil che fa viaggi, conosce certi personaggi che pensavano in un certo modo, di quel periodo lì, la cultura che c’era, lo penso. Anche nel mio album inizio con “Un sogno”: chiudete gli occhi e sognate e fantasticate. Immaginate cose, con la testa tra le nuvole. La realtà è il mio nemico principale.
Ho fatto un sogno e non me lo ricordo / e ora chissà, chissà dov’è / sopra le nuvole o su un altro mondo / in questa città, dentro un caffè
Dici spesso che nei tuoi dischi c’è più AS Roma che Romanità, è vero?
Quello sempre.
Come mai la scelta del tour bus come release party del tuo album?
Il titolo ha questa idea qui, poi viviamo a Roma che è una delle città più belle del mondo. Tra tutti i monumenti che dispone era un po’ a chiamata; c’è venuta questa idea quando facevamo le riunioni. Era un giornata molto bella; non avevo mai preso un pullman scoperto nella mia vita, nella mia città con la musica a palla del disco che stava per uscire.
Per il videoclip avevo dato delle coordinate, ora e via e quindi tutte le persone che son venute erano per le coordinate che avevo dato; mentre per il tour avevo dato dei link per presalvare l’album. Chi l’avesse presalvato tra i primi avrebbe avuto la possibilità di sentire il disco in anteprima.
Com’è nata la collaborazione con Leo Pari? Musicalmente siete anche diversi…
Noi due ci conosciamo da tempo ma è nata un po’ per caso. Siamo di quartieri diversi ma entrambi romani, amici di amici ed è capitato di fare session dato che siamo autori di altri. Allora ci hanno organizzato una session insieme e l’ho coinvolto, dato che funzionavamo bene, nella scrittura di alcuni dei brani del disco. Sono molto contento di quello che è uscito con lui.
È vero che hai un tatuaggio di Cremonini? Qual è la sua canzone che ti ha influenzato di più?
Quando sei fan ti piace tutto, ma se ti devo dire quelle che preferisco, ti dico, “Vieni a Vedere perché” e “Latin Lover”, mi piacciono un botto poi “Poetica” che è diventata un inno. Molti mi dicono che trovano Cremonini in tutte le canzoni e un po’ nella voce perché anch’io sono un po’ teatrale come lui, con il ritornello aperto, le strofe delicate, quasi femminili e secondo me abbiamo gli stessi ascolti. Siamo ossessionati entrambi dalle armonie e dal pianoforte.
Poi sono uno che non ama fare le cover, in gruppo per divertimento sono sempre quello che non canta e non suona perché le cover non sono una cosa che culturalmente mi affascina. Anche quando ho iniziato a studiare canto, dopo 2 mesi che cantavo le canzoni di altri, dicevo alla mia vocal coach che mi ero stufato e volevo cantare qualcosa di mio. Non mi appartiene la cultura delle cover, mi appartiene invece la cultura dell’ascolto. Ho tanto la curiosità di andare a cercarmi il gruppetto che non conosco, i correlati e mi perdo in questi giri qua, ma mettermi al piano e far le canzoni di altri credo di non averlo mai fatto.
Progetti legati al disco? Ti vedrei bene a presentarlo nei teatri…
Le atmosfere sono intime e intriganti. Sicuramente qualcosa si farà, una manciata di cose in estate sì, ma il bello arriverà in autunno-inverno. Nel tour farò due album insieme: Belvedere e Settebello, il cui tour avrei dovuto annunciarlo il giorno che è iniziato il lockdown. Voglio fare un live incredibile per i miei fan e per l’estate non ci sarebbero stati i tempi per una cosa come ce l’ho in testa io.
In Autunno ci sarà il grosso e sarà bello.
Claudia Verini
Sinologa e Musicista. Made in Umbria, ma vivo altrove. Lavoro nella moda, ma solo con la radio in sottofondo. Devo avere ogni giorno qualcosa da raccontare, tant'è che mi piace viaggiare fisicamente e mentalmente. La Sinestesia è la mia figura retorica preferita.