Diamine: “Che diamine!” e quel punto esclamativo che stavamo aspettando
Se i Diamine non riescono a stare fermi mentre guardano il mare, vi sfidiamo a stare fermi mentre ascoltate il loro nuovo disco “Che diamine!” prodotto da Maciste dischi.
Il duo romano composto da Andrea e Niccolò fa il suo ingresso nella scena Indie a bordo di una macchina del tempo che ci trasporta nelle discoteche tecno degli anni ’80. E se gli arrangiamenti segnano una inversione di tendenza che arriva dritta alle orecchie e alla bocca del cuore, le liriche sono un concentrato di sarcasmo nei confronti degli amori inutili che fanno da sfondo a quello che potremmo definire un caleidoscopio piazzato sulle crepe presente.
Partiamo con Ma di che, l’inizio di un percorso di destrutturazione del linguaggio, un gioco di assonanze e di antropomorfizzazioni che danno vita ad un immaginario nel quale gli alberi vanno dal dottore e i topi ridacchiano nascosti nelle torte.
Arriviamo a Chiunque tu sia. Un viaggio sensoriale “la lingua è morbida nella sua bocca chiusa”. Il richiamo ancestrale dell’attrazione tra due corpi “Quando eri il primo grido, l’esplosione il volo”. Ma anche una riflessione sulla nostra relazione con “ l’Altro” che si rivela a noi solo come rappresentazione di quello che vediamo e sentiamo “Chiunque tu sia/ nell’immagine più ampia che ho/nelle fantasie in cui mi porti/Chiunque tu sia/non sei tu/ma il mio scoprirti/.
E se l’intro di Niente di personale sembra la sigla perfetta per un manga che annuncia l’arrivo di un robot scintillante in Così via le atmosfere oniriche rilanciano il ritorno di conigli e tirannosauri in una corsa a ostacoli nella quale il protagonista insegue l’inafferrabile senso della vita “fino a ridere o morire”.
La title track Diamine chiude il disco. Un’esclamazione potente che nel descrivere una deriva dell’autocontrollo promette di non cedere alla resa “Qualcuno brilla ancora sotto le macerie”.
Questo lavoro è un’esplorazione delle relazioni umane ad un livello più profondo che ci parla della consapevolezza o della necessità di evitare di cercare risposte a tutti i costi. Perché sono proprio gli interrogativi irrisolti a generare nuovi sogni, passioni, identità…
“Sei sicuro che sai bene quel che dici quando dici –Le parole stanno ad un uomo, come il dito alle narici?”
Con una frase manifesto così, non potevamo non intervistarli!
“Che diamine!” è il titolo del vostro primo disco ma è anche l’avverbio che dà il nome al vostro gruppo. Cosa significa?
Ci serviva una parola dello stupore, “accidenti” non avrebbe suonato altrettanto bene ad esempio. Diamine diventa anche un rafforzativo per ogni titolo che denota l’intensità più o meno giustificata con cui scriviamo le canzoni
I testi delle vostre canzoni sembrano guardare al futuro e il vostro sound invita impaziente a seguire il flusso dell’incoscienza, si lega ad una percezione disillusa della realtà. Qual è la vostra visione del presente?
Sai forse è meglio non avere visioni sul presente, cerchiamo solo di starci dentro. Abbiamo di sicuro una visione del passato e una del futuro, teniamo carta bianca per il presente. La realtà si nasconde un po’ come fanno i gatti che vogliono essere trovati, la vediamo probabilmente bene quando dormiamo e siamo nel sogno. Se ti infili profondamente nella realtà di un uomo trovi l’assurdo e lo stesso si può dire che avvenga per lo studio approfondito di una materia che vediamo e tocchiamo. Le cose interessanti fanno parte di un mondo che non è razionale, che non abbiamo capito, che non può capirsi quindi cerchiamo di passare bene il nostro tempo accettandolo per quello che è.
Il soggetto ritratto in copertina, è l’immagine dell’uomo del futuro che si muove e ricorre spesso nelle vostre canzoni?
Per cercare l’essenziale scriviamo le storie delle nostre canzoni immaginandole nel futuro, questo per evitare falsi attualismi. Quello che sarà attuale tra 500 anni è davvero attuale anche oggi. Quello rappresentato nell’immagine può essere un nostro immaginario fedele ascoltatore dal futuro.
Vi hanno definiti una fusione tra Tommaso Paradiso e i Daft Punk. Noi ci mettiamo dentro un po’del futurismo post-Mogol di Battisti. Quali sono i vostri riferimenti?
Non ci sono persone tra i nostri riferimenti, è qualcosa che serve ai giornalisti per dare un’idea vaga al pubblico di quello che sentirà. Non cerchiamo di assomigliare a nessuno e non cerchiamo neanche di non assomigliare a nessuno ma facciamo le canzoni che ci vengono naturalmente per necessità utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo. Cerchiamo di tirare fuori da ogni canzone il suo essenziale, il suo demone e non noi stessi. Forse è come l’interpretazione di un sogno: la canzone è molto più importante di quello che crediamo di voler dire. I riferimenti principali sono lo stupore per le esperienze che ci capitano e il piacere fisico delle vibrazioni dell’aria sui timpani che può dare la musica. Non inseguiamo uno stile preciso, ci insegue invece il piacere di dedicare il nostro tempo alla creatività, questo entusiasmo è la nostra tregua
In “Niente di personale” raccontate la fin di una relazione “prendendola” con filosofia. Quanto c’è invece di personale nelle vostre canzoni?
A volte usiamo i sentimenti per descrivere alcuni stati interiori, a volte sono gli stati interiori che usano i sentimenti per descrivere noi. Infondo se è vero che non sono nulla (come ci dice la mistica orientale) e sono solo un’esperienza del Tutto allora mi posso immaginare come un raggio di luce, come l’espressione di una fonte solare comune. Se invece sono davvero convinto di essere qualcuno posso sempre ricordarmi che non possiedo nulla di quello che ho. Niente di personale quindi, in entrambi i casi. Ma ci viviamo addosso.