“Dove sei? – parte 1”: la conferma dello stile brillante di Lucio Leoni
“Ohi Lù, se ascolto i tuoi dischi mentre sto facendo altro mi infastidisci.”
“Lo prendo come un complimento..?”.
Si, perché per apprezzare Lucio Leoni è necessario fermarsi e concedersi del tempo per ascoltarlo e lasciarsi colpire da una mente brillante e una scrittura tagliente e mai scontata.
Esce oggi il suo nuovo disco “Dove sei? – Parte 1” e noi lo abbiamo intervistato per una chiacchierata.
Ciao Lucio, bentornato dall’India. Come è andata?
Bene, è stato un viaggio complicato e molto intenso (parola fin troppo usata per dire tutto e dire niente!). Non è un posto che ho particolarmente amato, ma il viaggio è stato molto importante. Probabilmente mi ha messo di fronte al fallimento dell’essere umano ed è dura riconoscersi in una specie che in qualche modo non ce l’ha fatta. Non mi sono sentito accolto, nonostante mi avessero parlato dell’accoglienza del popolo indiano. In assoluto sono uno che ama viaggiare e vado alla ricerca dell’incontro e questo è stato impossibile. La narrazione che c’è sul viaggio in India sulla ricerca di se stessi effettivamente l’ho ritrovata, ma perché è difficile entrare in contatto anche con gli altri viaggiatori! Tutti sono all’interno di un viaggio personale.
“Posso starti più vicino? Spero tu dica di no.” Ascoltavo “Fuori da qui” e sorridevo. Come vede Lucio Leoni il mondo che ci aspetta?
È un momento assurdo. Tutto quello che abbiamo scritto, prodotto ed immaginato fino a poco tempo fa, in qualche modo si sta modificando man mano perché il filtro con cui leggeremo il mondo da qui in poi cambierà. Per cui anche tutto il materiale pregresso, adesso subisce una reinterpretazione a volte arbitraria, a volte super calzante. È pazzesco! Ti dico la verità: sono uno di quelli preoccupati e spaventati. Questa è una roba che mette in discussione uno dei centri dell’essere umano: l’essere sociale. Non è una guerra, ci mancherebbe altro. Una guerra ti permette, in qualche modo, di vivere insieme il dolore. Qui tu non riesci ed è una cosa molto pericolosa.
Dici che, in qualche modo, tutto quello che gli artisti hanno già scritto assume una reinterpretazione. A me vengono in mente tutte le volte in cui nelle canzoni abbiamo ritrovato delle previsioni che si sono avverate. È possibile che sia legato al fatto che gli artisti, per mestiere, sono persone che si fermano più spesso ad immaginare il futuro, piuttosto che avere l’illusione di costruirlo attraverso stancanti ritmi di lavoro?
Una chiave molto interessante. Caschi male! Ho bisogno di confronto, quindi se hai da fare me lo dici! (ride). Anche con la favola, che sostanzialmente rientra nella realtà fantastica, puoi andare dove vuoi, si ha un modo per codificare la vita, l’esperienza e lo stare al mondo.
Quindi, sostanzialmente, quando cerchi di immaginare il futuro lo fai filtrando quello che ti capita e che vedi. Credo che sarà dura la scrittura da qui in poi. Oltre a ridiscutere i contenuti, bisognerà ripensare anche la forma.
“Quant’era bello quando ci dicevamo, avete tutta la vita davanti e adesso che siamo fuori pericolo, guardiamo indietro cercando il futuro”, penso al danneggiato mondo di chi lavora dietro le quinte della musica e dello spettacolo…
In questo passaggio citato io ci trovo il mio centro di ottimismo. Da qualche parte, per la mia generazione, questa soluzione trovata nel verso del sentirsi fuori pericolo, in qualche modo, ci mette su una scialuppa di salvataggio. Siamo tutto sommato una generazione di privilegiati che un bel pezzo di vita fatto bene se lo sono visto.
Da un punto di vista lavorativo, siamo davanti ad un tema gigante. Io non sono un fan dei piagnistei. La categoria artistica non mi ha fatto impazzire. Ho avuto la sensazione che ci sia lamentati fin da subito con accorati appelli del “non lasciateci da soli” e “non siamo inutili”. Credo che ci siano dei momenti in cui, viva Dio, si può anche pensare che siamo inutili. Non è inutile quello che abbiamo scritto e non sarà inutile quello che scriveremo. È chiaro che in questo momento preferisco un medico ad un musicista!
Come dicevo, va ripensato tutto in delle forme che non lasciano indietro nessuno. Ecco, mancano piattaforme di confronto. Noto tante richieste, tanti appelli ad uno Stato che più volte – con le canzoni – abbiamo condannato o da cui, quanto meno, abbiamo più volte preso le distanze…
Da appassionato di musica, metto su i tuoi dischi quando ho bisogno di qualcosa che non sia circoscritto a roba rinchiusa in genere ben definito in termini di moda o che segue gli standard del cavalcare e inseguire un’onda che porti al automaticamente al successo…
Da un certo punto di vista mi fa piacere sentirmi ascoltato come mi racconti. È una roba che ricerco tantissimo. Ma è anche una riflessione che faccio sempre con i miei musicisti e stiamo cercando di renderci più facili all’ascolto. Io sono uno di quelli che all’ascoltatore chiede tanta pazienza, tanto impegno e non sempre questa cosa paga o è giusta in sé. Sicuramente si va verso la ricerca di qualcosa di più facile.
John Cage è stata una figura fraintesa nelle sue sperimentazioni musicali, ma anche per l’esaltazione del silenzio. In un mondo in cui ognuno è “democraticamente autorizzato” a dire la sua ad alta voce si rischia di perdere il valore del silenzio stesso. Che valore attribuisce al silenzio chi come te utilizza la velocità delle parole come tratto distintivo?
Il silenzio per me è centrale. Da un punto di vista musicale ci faccio un lavoro continuo. È vero che io riempio ogni spazio con la voce ma musicalmente è un continuo lavoro di dinamiche che mi consente di attaccare queste mie “pippe” infinite (ride). Se non ci fosse quel lavoro li – fatto con musicisti stellari con i quali collaboro – probabilmente risulterei del tutto inascoltabile. Musicalmente ricerco tantissimo il silenzio e il vuoto come qualcosa di armonico nella composizione dei suoni.
“Ti impressiona più resistere o mollare, la trasformazione o la conferma, e ti spaventa più il silenzio o più la merda”. Al di la del momento che stiamo vivendo, questa frase mi ha fatto venire in mente le dirette streaming, senza offendere nessuno ovviamente, esiste un confine tra lo streaming fatto per creare compagnia e lo streaming fatto per sopravvivere in visibilità?
Wow. Io sono assolutamente lontano da quel tipo di proposta. C’ho un legame di studio con la performance dal vivo. Non riesco ad immaginare la rappresentazione streaming di un concerto. Questo confine che vai ricercando credo sia molto sottile. C’è sicuramente, ma dovrebbe esserci nella forma. Se la diretta streaming, nella narrazione e nell’ideazione, crea e costruisce una proposta altra, allora stiamo lavorando ad una diretta streaming legata all’intrattenimento. Quando riporta gli stessi paradigmi della performance che avrei potuto benissimo vedere dal vivo, allora li la vedo molto più difficile.
…può essere quindi considerata “una questione di qualità”?
Più che di qualità, di riflessione! Secondo me c’è stato anche un momento di panico. Ho, ad esempio, la sensazione che le dirette streaming stiano rallentando. Le prime settimane era un turbinio di dirette. Avviene quando c’hai paura del vuoto, del silenzio. Dicevamo prima dell’importanza del sapere quando si è utili e quando lo si è meno. Chi è riuscito a soffermarsi un attimo sulla proposta, sul perché e sul cosa stava succedendo, posando un attimo il pensiero sul momento, forse ha fatto delle riflessioni diverse.
Se dovessi dire qual è la prima parola che mi viene in mente dopo aver ascoltato il tuo disco, mi viene in mente “San Gennaro”. Perchè? Perchè lui?
Il brano nasce perché mi interessava indagare questo aspetto dell’essere umano, nonostante io non abbia un gran rapporto con la spiritualità. Ognuno, in qualche modo, incontra qualcosa che lo fa pensare ad energie diverse. Studiando un po’ e ricercando informazioni su santi, divinità ed energie, mi sono accorto che San Gennaro era un elemento molto curioso. È uno di quelli che c’ha un rapporto più quotidiano con l’uomo. Inoltre, oltre ad essere patrono di una città importantissima, lui non è che fa il miracolo una volta sola all’anno. Lui lo fa tre volte fisso e solo quando viene interpellato. È una metafora del rapporto quotidiano con qualcosa di mistico.
In un’intervento in Radio, hai detto che ti sei affidato ai giovani come portatori di qualcosa di nuovo. Banale la domanda su quale giovane artista ti piace del panorama attuale. Piuttosto immagino un giovane Lucio Leoni. Quale big avresti voluto riponesse in te speranza e perché?
Domandonissima! Se mi immagino agli esordi ti dico Caparezza. In quel momento li, alla soglia del 2000, ce n’era per nessuno. Ma mi vengono in mente anche i 99posse. Sarebbe stato devastante! Infine ti direi i Rage against the machine! Una bella chiamata di Zack de la Rocha che ti dice “vieni a fare un po’ di casino!” non sarebbe stata male! (ride).