Ho ascoltato l’EP d’esordio di Marco Fracasia con curioso interesse. Quando ho finito di farlo, ero impaurita, arrabbiata, triste, ansiosa e soprattutto felice. Felice di aver avuto l’opportunità di attraversare paura, rabbia, tristezza ed ansia dentro i suoi pezzi ed esserne uscita non soltanto più compresa, ma decisamente meno impaurita, arrabbiata, triste ed ansiosa di com’ero prima di ascoltarlo.
Assurdo, no?
“Mal comune mezzo gaudio”, si dice. Ma in realtà ciò che accomuna Marco Fracasia a qualunque ascoltatore desideri avvicinarsi alla sua musica è l’estrema trasparenza che ti fa sentire riconosciuto in ciò che hai nelle cuffie. Sempre ammesso, però, che tu voglia ascoltarlo con altrettanta sincerità. All’inizio può sembrare un riconoscersi fastidioso, obnubilato da sonorità super sintetizzate e sintetiche. Punk quanto basta – almeno nei testi – per non esserlo mai del tutto. Cantautorale, infine: quasi che un mix troppo poco eterogeneo di stimoli non fosse sufficiente a fornire un quadro completo delle mille emozioni che questo lavoro trasmette.
Adesso torni a casa è uscito lo scorso 11 marzo per 42Records. E nella confusione generale di stati d’animo che queste cinque tracce mi avevano messo addosso, alzare la cornetta e telefonare a Marco è stato più che naturale.
Ecco che cosa ci siamo raccontati.
Chi è Marco Fracasia? Quando è nato e come?
A livello musicale, posso dire di aver cominciato a suonare la chitarra da molto piccolo. Da quel momento è stato un susseguirsi discontinuo di esperienze, in diversi progetti che definisco “fallimentari”, anche se dal punto di vista formativo sicuramente hanno avuto il loro peso. Fondamentali poi sono stati alcuni ascolti in particolare, pescati direttamente dal panorama internazionale, come gli LCD Soundsystem. In ogni intervista che faccio va a finire che li indicano come i miei idoli, ma in realtà il mare degli ascolti che porto avanti è davvero immenso.
Dicevi panorama internazionale, eppure la malinconia che si respira nel tuo EP d’esordio, “Adesso torni a casa”, suggerisce a tratti quella di alcuni nostri grandi cantautori del passato.
È un onore per me! Chiaro che ho ascoltato anche loro: Battisti e Dalla su tutti. Se devo però essere totalmente sincero, la musica internazionale è quella che fin dall’inizio si è rivelata in grado di stimolarmi nel modo giusto.
C’è, nel tuo EP, un senso diffuso di inadeguatezza che sembra permeare un po’ tutte le tracce.
Sì, assolutamente. Ci sguazzo nell’inadeguatezza. È forse proprio questo il primo vero aspetto che caratterizza il disco e che lo rende un po’ diverso – almeno a livello di testi – da altre cose in circolazione. Ecco, appena dico questo mi rendo conto di non aver detto proprio il vero. Penso che ognuno creda sul serio di essere unico, diverso. Sicuramente nel mio disco si respirano aspetti legati al mio modo di essere unico, alla mia capacità di pensare le cose in maniera diversa rispetto agli altri. Ma non è niente di speciale, niente di nuovo. Tutti siamo in grado di pensare le cose in maniera diversa e questo non ci rende unici, ma simili e smaniosi di emergere.
D’altronde in “Solfeggio” dai voce proprio a questo quando canti: “siete tutti stupidi, sono l’unico sano”. E forse, in questo pezzo più che negli altri, esplode il carattere maggiormente sociale (o anti-sociale) dell’inadeguatezza, che diventa denuncia. Che cosa vorresti cambiare ad oggi del mondo in cui vivi?
Che sia un periodo di merda su parecchi fronti è più che evidente. Mi piacerebbe vivere in un ecosistema sano, questo sì. Diciamo che l’EP è stato partorito in un momento di rabbia e tristezza. Le frasi come quella che hai citato le dici una volta al mese, quando davvero sei giù e arrabbiato e pensi che tutti gli altri siano scemi. L’ho scritto piuttosto di getto quel testo.
E a proposito di scrittura e composizione, come lavori di solito?
Nel caso di Solfeggio mi ricordo che la scrissi in due parti distinte: la prima parte in un giorno e la seconda in un altro. In generale non ho un metodo preciso: posso metterci anche un mese per ultimare un brano. A livello di scrittura vado via molto fluido e, se mi blocco, trovo nuovi stimoli leggendo un libro, guardando un film. Sulla musica i problemi diventano più seri. Per questo EP, ad esempio, ho registrato praticamente ogni cosa. Non avevo una batteria e, per trovarne una, sono dovuto andare in un posto, facendomi addirittura prestare le chiavi da un amico per non pagare.
Nell’intervista possiamo scriverlo?
Certo, tanto ci ho litigato (ride).
Torniamo a noi. E torniamo a casa, come il tuo EP ci suggerisce. Quello del ritorno è un tema e un desiderio che si spalma in modi diversi in tutte le canzoni, ma trova espressione nel titolo stesso dell’album.
Sì. Io lo intendevo più come quel tornare indietro da una determinata situazione: quando ti sei reso conto che lì in mezzo non c’è spazio per te, che ad una serata ti stanno antipatiche alcune persone. Allora decidi di tornare a casa, anche se sono solo le dieci di sera. La casa, come luogo fisico dove tornare, è sempre stato il mio rifugio. In particolare la casa di mia nonna, che è il posto dove stanno tutti i miei strumenti, i synth. C’è poi da dire che per tutta la durata dell’EP non ho usato la prima persona. Non sono mai io quello che torna a casa, però è come se lo fossi: lo rivelo solamente nell’ultimo brano.
In “black midi” c’è anche tutto il dolore della solitudine impostaci dagli altri, l’isolamento di chi viene emarginato perché nessuno lo capisce. E allora prende e se ne va. Quanto può essere uno sprone, questo stesso andarsene, per realizzarsi veramente – senza quelle imitazioni che citi nel testo?
Secondo me qui hai colto pienamente il significato del brano: andarsene alla fine significa fare di meglio, imparare qualcosa dalla delusione per trasformarla. Questo pezzo parla ovviamente di realizzazione artistica, un tipo di realizzazione che secondo me passa da questo andarsene. Ho bene impressa nella mente l’immagine di me stesso, mentre me ne andavo a casa di mia nonna e mi mettevo a partorire idee. La consapevolezza iniziale di non esserne capace perché – appunto – c’è ancora molto da imparare può essere frenante. Ma lo stesso imparare può essere il risultato finale di questa consapevolezza. Non sono bravo come i black midi, ma scrivo e suono ugualmente.
La traccia successiva, “Ipersoap”, mi ha colpito inizialmente per il titolo: quasi come se a metà dell’EP tu avessi voluto lavare via – come si fa usando i prodotti di questi negozi – tutte le tristezze accumulate nei primi due brani, per poi ricominciare. Infatti la canzone successiva s’intitola “Un inizio”.
Wow. In realtà è un caso, ma la tua interpretazione ci sta un sacco. Fra l’altro ho scoperto che non esiste più il marchio Ipersoap, entro fine anno tutta la catena di questi negozi si chiamerà PiùMe. Per il resto nulla, questa canzone è stata concepita da una situazione che mi era accaduta realmente davanti ad un negozio, ma non era nemmeno un Ipersoap bensì un NaturaSì, solo che nel titolo NaturaSì non ci stava così bene. Comunque sappi che userò la tua interpretazione in apertura del brano ai concerti: mi ha super convinto.
Sempre seguendo la mia – a questo punto errata – interpretazione, “Un inizio” è il brano che secondo me denota maggiormente il ricominciare, l’andare via cantato già in “black midi”.
Questa volta ci sei.
Ottimo! Come racconti nel testo, di fronte allo stimolo di un professore che non si accorge del tuo valore, inizi a “scrivere bene, dire di quando non ti senti le mani, guardare fuori, salutare e partire”.
Ora che citi il testo mi rendo conto di quanto faccia schifo.
Ma no!
(ride) Vai avanti comunque.
Sembra quasi che la musica stessa sia qui un riscatto, un nuovo inizio.
Lo è senza dubbio. Questo brano parla di un ricominciare difficile, dopo una di quelle delusioni quasi banali che si rimpiccioliscono con il tempo. Basterebbe dormirci su, ma se prima di addormentarti le scrivi in musica il risultato è questo. Dunque per me è stato facile scrivere questa canzone: è quella che ho realizzato in meno tempo ed è quella che preferisco di meno, anche se non so se mi conviene dirlo. Però mi piace il fatto di aver messo Un inizio quasi nel finale: bisogna sempre cominciare, o ri-cominciare, dalla fine.
E allora arriviamoci alla fine. “Ti voglio dire quanto sono stato male con te”, l’ultimo brano, ha uno di quei titoli lunghissimi che ricordano Lina Wertmüller.
E parla di cose altrettanto immaginifiche. Non di una relazione, bada bene: è più un colore, un evento atmosferico, un posto. Una canzone situazionale, non sentimentale. Mi piace la piega che ha preso il testo, l’arrangiamento. Posso dire che è la mia preferita. Almeno in questo momento.
Perché proprio in questo momento? Vuoi dirmi quanto sei stato male con me durante questa intervista?
(ride) Più che altro perché ho sempre questa sorta di bipolarità nell’elaborare quello che faccio. A volte sono così orgoglioso della mia musica, altre volte mi sembra tutta da buttare via. Ma questa canzone, ora, sento che mi piace moltissimo. Fra due minuti potrei cambiare idea.
“Assunto che da adesso in poi tutta la vita è blu” – come canti in questo brano – che cosa accadrà a Marco Fracasia da adesso in poi? Quali sogni vorresti realizzare, nella musica o in generale?
Mi piacerebbe fare abbastanza soldi per potermi comprare degli strumenti musicali nuovi. E poi ho appena finito due concerti inspiegabilmente andati benissimo, spero possa ricapitare a breve. Vorrei essere capace di scrivere cose nuove, sono un po’ pigro a volte. Ma in questo periodo sto ascoltando un sacco di nuova musica e sento già fremere le idee.
E le sento anche io, da dietro la cornetta. Sento le idee di un giovane uomo che vuole mangiare il mondo ma che ne esce masticato. Sputato a terra come una gomma, ti si appiccica sotto la scarpa e ti fa maledire il fatto di essere uscito di casa. Perché adesso te la dovrai portare addosso: attaccata alla suola, a diventare parte integrante del tuo cammino ad ogni passo in più che compi. E poi, mentre cammini, pensi che quel rumore così strano – il rumore di una semplice gomma da masticare fra la suola e l’asfalto – sia in fondo piacevole. Ti accompagna lungo la strada, ti fa sentire meno solo. Perché sa raccontarti anche la sua di solitudine, se lo ascolti bene.
E “adesso torni a casa”, con Marco Fracasia.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.