“Non saremo mai come voi, siamo diversi. Puoi chiamarci se vuoi ragazzi persi“. Nel 1994 circolava questa traccia, registrata su un’audiocassetta di colore rosso – Mondo naïf – rigorosamente autoprodotta. A cantare Mai come voi erano tre ragazzi di Pordenone, (garage) Pordenone: Davide Toffolo, Luca Masseroni e Stefano Muzzin. Due anni più tardi, a quest’ultimo subentrerà Enrico Molteni, con cui abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere. All’ordine del giorno il nuovo disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Garage Pordenone (uscito per Tempesta lo scorso 12 aprile), il loro viaggio lungo 30 anni attraverso la musica di ieri e di oggi e tre imperdibili dischi per comprenderne davvero le influenze.
Partirei dalla “vita lontana da ogni cliché” che cantavate in quel primo singolo: trent’anni dopo, l’avete trovata?
Io direi che l’avevamo già trovata trent’anni fa. Quello di Mai come voi era un invito ad una forma alternativa di esistenza, slegata da mode e dinamiche tipiche del pop. Noi facevamo parte di questo meccanismo di forte controtendenza, ma senza sovrastrutture: senza realmente pianificarlo. Non perché l’abbiamo voluto, dunque, ma perché ci è venuto naturale.
Quella era la vostra cifra, la cifra della vostra musica.
Esatto, proprio così.
Nel panorama odierno, nella nuova scena musicale italiana, altri tre ragazzi persi sono improvvisamente saliti alla ribalta. Sto parlando de La Sad, ovviamente con i dovuti distinguo: si parla di un’epoca ormai totalmente diversa.
Proprio l’epoca diversa rende forse difficile il paragone. Loro sono esteticamente molto punk ma d’altra parte sono anche andati a Sanremo, il che, comunque la si voglia vedere, crea un po’ di confusione. Soprattutto se il loro ragionamento musicale si schiera contro un certo tipo di sistema. Difficile scostarsi da quel sistema facendone parte, anche se alcuni dicono che è sempre possibile “distruggerlo” dall’interno. La risposta è che sono cambiati i tempi, appunto. Ma il problema non è di chi la musica la fa, le cui intenzioni possono anche essere autentiche, quanto piuttosto di chi l’ascolta. Non so più se i giovani d’oggi interpretano un tale tentativo di rivoluzione come qualcosa di autenticamente ribelle o come una grottesca passerella, fine a se stessa.
Una cosa è certa: quando eri tu un giovane ascoltatore, la ribellione dei Tre Allegri ti affascinava parecchio.
Di più: m’innamorai istantaneamente. Ero cresciuto in un paese vicino a Pordenone e un giorno un ragazzo che conoscevo mi diede la cassetta rossa dei Tre Allegri, Mondo naïf. Era il ’94 e della loro musica mi colpii molto questa parte strumentale così nirvaniana abbinata a dei testi in italiano decisamente d’autore. Mi piaceva l’immaginario che quel suono riusciva ad elaborare, sentivo personalmente di farne parte. Cominciai allora a non perdermi nemmeno un concerto del gruppo, il che era piuttosto facile visto che vivevo a chilometro (quasi) 0 rispetto alla scena in cui si muovevano.
Finché, ad un certo punto, ci fu questa discussione con il primo bassista e mi venne chiesto di subentrargli. Insomma, da fan sfegatato ero entrato a far parte del gruppo che amavo. Una cosa molto strana in effetti, che non succede proprio a tutti. A me è accaduto ed è stata una grande gioia perché effettivamente mi ha permesso poi di vivere all’interno di una dinamica come quella di una band e della nostra etichetta, Tempesta, immergendomi in quelli che già all’epoca erano i miei interessi più grandi: il mondo della musica e quello della discografia.
Citandovi parzialmente, com’era quel mondo “prima che arrivaste voi”?
In trent’anni è cambiato tutto. Personalmente sono cresciuto con una mamma che ascoltava un po’ Neil Young e un po’ Eros Ramazzotti, un po’ Bob Dylan e un po’ Claudio Baglioni. Oscillavamo così fra quel sound tipicamente americano osannato dalla critica e il cantautorato italiano mainstream. Gli ascolti di allora erano un vero e proprio ponte, che abbiamo tentato di ricostruire anche con la nostra musica. In quel periodo, tanti gruppi in Italia hanno avuto un atteggiamento parimenti alternativo, che cercava di fare qualcosa che rimescolasse le carte e che al tempo stesso andasse un po’ “contro”. Contro soprattutto agli ascolti radiofonici, dove dominava sicuramente il pop, difficilmente il rock e ancora più difficilmente l’indie.
Questo significava fare canzoni senza curarsi di alcune dinamiche che erano considerate fondamentali: la durata dei pezzi anzitutto, ma anche il volume delle chitarre elettriche distorte o la cadenza dei ritornelli, che non era per forza precisa. Si era liberi di sperimentare. E, come noi, lo erano anche gli Afterhours, i Marlene Kuntz, i Subsonica: avevamo il privilegio di dare libero sfogo ad un immaginario controcorrente, che però non ci impediva di costruire la nostra personale carriera nella musica con un discreto seguito.
Questo privilegio esiste ancora?
Oggi la vedo più difficile. Penso che il contesto si sia un po’ schiacciato, appiattito. Di base tutto, ora, può andare di moda e funzionare, dunque diventa più complesso proporsi davvero come degli antagonisti a qualcosa. È cambiato anche il modo in cui si ascolta la musica. E se tutto diventa alternativo, nulla lo è più.
Forse nella musica di oggi si percepisce un senso di precarietà che, lungo il corso della vostra carriera, avete fatto spesso anche vostro. Ma soprattutto in quest’ultimo disco, “Garage Pordenone”, dov’è ben rappresentata la precarietà sentimentale ed economica (“Fino a quando dura”), insieme a quella ambientale, che riguarda il mondo intero (“Greta la bambina”).
Sei la prima che ce lo fa notare ed effettivamente è qualcosa che traspare, perché c’è. Citerei anche Ho’oponopono, soprattutto per quanto riguarda la precarietà economica (“Perché quel cretino è più ricco di me?”). Penso che i Tre Allegri, da sempre, siano mossi da questo genere di sensazioni. Non abbiamo mai avuto un successo tale da sentirci al sicuro, ma abbiamo anche sempre immaginato di vivere in un modo abbastanza semplice, senza troppe velleità.
Adesso, dopo trent’anni di carriera, questa sensazione di mancata stabilità o di precisa instabilità che dir si voglia, si è solo che rafforzata. Anche, e soprattutto, di fronte alle grandi instabilità che sta vivendo il mondo: pandemia, guerre. Se ci pensiamo non sono altro che il riflesso politico e sociale di una precarietà emotiva ed umana che da sempre ci contraddistingue.
Hai citato “Ho’oponopono”, canzone con cui il disco si apre. Ho trovato personalmente molto curioso come l’incipit e la chiusura dell’album passino da questa antica pratica hawaiana ai rumori caotici di un quartiere di Roma (con l’ultimo brano, “Torpignattara”).
Non c’è in effetti alcun tema particolare che leghi i due brani. Diciamo che si tratta più di una cosa musicale. La prima traccia è estremamente garage e ci piaceva che il disco iniziasse con un’energia del genere. La canzone finale invece è il frutto di tante registrazioni ambientali simili, che rientrano in quella che è stata una passione di Davide nell’ultimo anno: la musica concreta e il field recording. Motivo per cui ha registrato tantissimo materiale così, che volevamo un po’ ovunque nel disco, inframmezzandolo alle canzoni. Questo perlomeno il piano originale, poi è rimasta soltanto quella traccia unica, a chiudere il disco.
Un disco, Garage Pordenone, che porterete in tour durante l’estate ma che soprattutto sarà parte integrante dell’atteso trittico al Mi Ami, dove vi esibirete in una serata per ogni vostro decennio di vita (24-25-26 maggio). Allora chiudiamo con un gioco. Riesci ad indicarmi un disco non vostro che vi ha ispirato o definito? Uno per ciascuno di questi tre decenni.
Per i nostri primi dieci anni direi Crocked Rain, Crocked Rain dei Pavement (1994). Per i venti, Dell’impero delle tenebre de Il Teatro degli orrori (2007). Infine, per l’ultimo decennio, c’è Two Hands dei Big Thief (2019).
Prossime date della band
- 01.05 Taranto // Uno Maggio Taranto Libero e Pensante
- 02.05 Roma // Monk
- 03.05 Firenze // Viper Theatre
- 04.05 Fontanafredda PN // Astro Club
- 24.05 Milano // Mi Ami
- 25.05 Milano // Mi Ami
- 26.05 Milano // Mi Ami
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.