Giovanni Milani, per ritrovarsi a volte è necessario distruggere sé stessi

La prima cosa che salta all’occhio – pardon, all’orecchio – quando si ascolta Fotografia N.2, il nuovo album di Giovanni Milani (uscito per Costello’s Records lo scorso 20 settembre), è la presenza prepotente ed imprescindibile del suono. Soprattutto, di tracce strumentali perfettamente eseguite e capaci di fare da sfondo a diversi scenari di quotidianità. Ho ascoltato Ricorrente mentre osservavo le persone che attraversavano le strisce pedonali da dietro il parabrezza della mia auto. Jelosia è stata la colonna sonora avvincente di un rientro notturno altrimenti silenzioso, a lato di strade buie e vuote. Segui il tempo ha invece contribuito al mio risveglio mattutino, mentre mi preparavo all’inizio del giorno.

Il jazz è improvvisazione, esattamente come le nostre vite. Per questo parla ad esse e di esse in modo più preciso di tanti altri generi. Ma in questo suo secondo disco, Milani – sassofonista e cantautore – fa di più: riporta il jazz alla quotidianità mescolandolo ad altre sue attitudini: quella al coinvolgimento più intuitivo e diretto della musica pop ad esempio. Senza dimenticare la delicatezza e l’ironia di testi talvolta profondi e altre volte talmente discreti da apparire più leggeri di quanto in realtà non siano.

Abbiamo avuto l’occasione di parlarne con il diretto interessato, in un’intervista ricca di stimoli.

Giovanni Milani
Domanda a bruciapelo per rompere il ghiaccio: la musica che senti più tua è strumentale o cantata?

Diciamo che la coesistenza di brani strumentali e brani cantati è cifra per me di quel mettere insieme tutto ciò che fa parte del mio mondo, nell’attesa di individuare la mia vera strada. Sento fortissima la spinta propulsiva a sperimentare molto e per farlo ho bisogno di questa compresenza, di questa multigeneralità.

Sei ancora nel pieno del tuo percorso insomma.

Sì, anche di studi. Sto per prendere il master a mesi, ma al di là di questo credo che nel mio primo lavoro, pubblicato nel 2020 mentre ancora stavo studiando all’Accademia del Jazz, si fosse delineata una sorta di esercizio stilistico. Era un disco incentrato su quelle sonorità e su quei parametri: i brani strumentali lì sì che prendevano il sopravvento. Questo disco è più una ricerca su quello che vuole essere la mia estetica musicale futura, nella consapevolezza che il percorso è ancora lungo.

Un percorso che parte da lontano, come la tua passione per la musica immagino.

Assolutamente. A livello di ascolti, la mia musica nasce soprattutto dal soul. Mia madre ascoltava moltissimo Amy Winehouse, mio padre era più orientato musica rock e sul cantautorato italiano, in particolare Dalla e De Gregori. Io però ho iniziato a pensare di poter fare qualcosa con la musica dopo la morte di Pino Daniele: già suonavo un po’, ma l’idea di scrivere cose mie mi è arrivata specificatamente dal suo ascolto. Fu una sorta di epifania.

E proprio parlando di testi, nel tuo disco si amalgamano alla perfezione temi leggeri ed ironici (“Dormo nella Panda”) ad altri, più intimi e drammatici (“Odio andarmene”). Quale direzione sta prendendo in questo senso il tuo approccio alla scrittura?

Tendenzialmente la mia scrittura nasce da un bisogno. Non sono molto bravo ad esprimere i miei disagi o parlare di me stesso e quando c’è qualcosa che devo tirar fuori lo faccio spesso con la musica e insieme ad essa con la scrittura. Odio andarmene parla del suicidio di una persona a me cara, ad esempio. Ed è strano perché di certi tipi di argomento è estremamente difficile parlare con le persone che hai vicino, mentre paradossalmente se li inserisci in una canzone e la dai in pasto a tutti quelli che vorranno ascoltarla è molto più semplice. Non chiedermi perché.

Fotografia N.2
Giovanni Milani, “Fotografia N.2” [Ascolta qui]
Un perché che ti chiedo è invece quello legato alla copertina del disco. Che cosa rappresenta quel duplice te stesso, l’uno seduto su una sedia mentre l’altro gli punta una pistola alla testa?

Per trovare se stessi è a volte necessario distruggere se stessi. La copertina rappresenta questo concetto: in quella foto qualche modo mi sto uccidendo, sto morendo ai miei studi accademici, al jazz tradizionale, ma sto anche scoprendo altre parti di me. Si tratta di un’immagine legata anche al titolo dell’album: Fotografia N.2 perché è il mio secondo lavoro e perché una fotografia immortala sempre qualcosa, rende letteralmente immortale un momento, definendo quello che si è in quel particolare attimo. Uccidendomi, immortalandomi, definendomi per quello che sono musicalmente in questo momento dò all’ascoltatore alcune coordinate riguardanti chi sono ora. Ma per farlo devo morire a chi ero prima.

Porterai il disco dal vivo anche durante questa stagione autunnale?

Se devo essere sincero ora come ora non sto cercando di realizzare il progetto live. L’ho fatto durante l’estate, prima della pubblicazione, e adesso sto lavorando alla mia tesi e ad altri due album. Uno sarà una riedizione di Fotografia N.2 perché mi sono reso conto che durante i live estivi eseguivo perlopiù dei remix sull’onda elettronica-techno, qualcosa che mi piacerebbe riproporre anche come registrato. Il secondo disco a cui sto pensando è quello che porterò alla mia tesi di master, con della musica elettronica ma anche un quartetto d’archi, dei fiati, qualcosa di più complesso da registrare in studio in presa diretta.

Da quello che mi stai dicendo, e da buon jazzista, si percepisce uno scarto enorme per te e per la tua musica fra quello che proponi dal vivo e il registrato in studio.

Assolutamente sì. Si tratta di mondi che comunicano ma che non possono definirsi assimilabili. Per me è importante che le due cose proseguano su strade separate.

Ultime tre domande, botta e risposta.

Vai.

Una cosa che non ci aspetteremo mai di te.

Fra i miei ascolti principali un posto d’onore lo ha Tiziano Ferro.

Se Fotografia N.2 fosse un film sarebbe…

Qualcosa di diretto da Roman Polanski.

E se fosse un libro?

Il maestro e Margherita di Bulgakov.

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