“Gloria!”, Margherita Vicario e il diritto di cantare

Maddalena Laura Sirmen era figlia di una famiglia aristocratica caduta in miseria. Per tale ragione crebbe, da metà Settecento in poi, in uno degli orfanatrofi veneziani ai quali la storia di Gloria! – esordio alla regia di Margherita Vicario – è ispirata. Il film è infatti ambientato a inizio Ottocento e ha per protagonista Teresa, soprannominata “la muta”, che lavora come domestica al Sant’Ignazio, un decrepito istituto musicale per educande. L’imminente visita del nuovo papa Pio VII getta l’istituto in fermento e, mentre il maestro del coro fatica a comporre qualcosa per l’occasione, Teresa scopre uno strumento musicale di nuova invenzione, il pianoforte, coinvolgendo in esperimenti musicali anacronistici, caratterizzati da sonorità pop e jazz, anche le altre ragazze dell’istituto.

Gloria! di Margherita Vicario [Ascolta qui]

La realtà però, come spesso accade, è un pochino diversa: l’unica opportunità che una giovane donna del tempo aveva per riuscire a vivere della propria musica era quella di andare in sposa ad un compositore. «Ed è solo grazie a questo matrimonio che abbiamo traccia, ad esempio, degli spartiti della Sirmen» ha raccontato Margherita Vicario, durante un talk organizzato dalla rassegna Generazioni al Rifugio Sauch, fra le montagne che circondano Trento, domenica scorsa.

Un incontro dal titolo eloquente – Gloria! Il diritto di cantare – ed iniziato sotto il segno di chi, ancora oggi, quel diritto se lo vede vietare. Una nuova legge, infatti, voluta dai talebani in Afghanistan, ha recentemente impedito alle donne di cantare in coro in pubblico. Contro tale orrore è insorta anche Caterina Caselli, in una video-denuncia pubblicata sui social qualche giorno fa e ripresa dalla stessa Vicario all’inizio del suo intervento, condotto dal critico musicale Pierfrancesco Pacoda, in occasione del quale l’abbiamo intervistata.

“Il diritto di cantare” fa subito tornare alla mente “Il diritto di contare”, titolo di un film uscito nel 2016 e incentrato sulle vite di tre donne afroamericane che negli anni Settanta lavoravano per la NASA all’operazione spaziale statunitense. Analogie e differenze fra il tuo film, “Gloria!”, e questo?

Sicuramente, in entrambi i casi, le protagoniste fanno simpatia perché studiano e si applicano nel lavoro che amano principalmente per se stesse. Certo, vorrebbero anche andare oltre e riuscire a viverci, ma intanto lo fanno per assecondare un proprio bisogno: l’esigenza di affermarsi, realizzarsi ed esprimersi. Se pensi che in Iran, adesso e non nel Settecento, non fanno andare all’università le ragazze e che i talebani, come ricordava la Caselli, impediscono alle donne di cantare per strada, è evidente come stiamo ancora parlando di tre secoli fa soltanto perché viviamo qua e non laggiù.

Parli di diritto all’affermazione, dunque, e all’ambizione. Nel panorama musicale odierno come siamo messe?

Nell’ultimo decennio mi sembra che nell’ambiente musicale le cose siano cambiate in meglio. Tantissime colleghe hanno grande successo in tour, basti pensare all’estate che stanno passando Angelina Mango, Rose Villain e Gaia. Mi piace poi vedere sempre più donne prendere posizione, anche in classifica. Per mia personale indole, godo molto dei successi altrui e noto dei miglioramenti, anche dal punto di vista squisitamente numerico: perché ecco, del femminismo nella musica, non ne farei tanto una questione ideologica quanto piuttosto statistica.

Hai spesso definito il tuo film corale: si tratta di donne che cantano insieme, supportandosi. Quanto una simile sorellanza, una rete di questo tipo, aiuta nel concreto?

La sorellanza, intesa come mutuo soccorso fra donne, è sempre esistita in tutti gli ambiti, a prescindere da quello professionale e lavorativo. Le donne, nella storia, si sono sempre aiutate fra di loro e questo perché erano un po’ separate dalla compagine maschile: mentre i mariti andavano a lavorare, le donne si aiutavano fra di loro nelle faccende domestiche, ne condividevano le pesantezze. Dall’altra parte, però, il mito della competizione femminile ha creato culturalmente dei veri e proprio mostri.

Io sento di appartenere ad una generazione che non ci crede più, che ha maggiore consapevolezza nelle potenzialità di ogni donna e di tutte insieme. Non mi piacciono però nemmeno le estremizzazioni e dunque tutte quelle opportunità e quegli eventi creati appannaggio delle sole donne mi stanno stretti: mi sembra anacronistico e spesso ancora più competitivo e discriminante.

La competizione caratterizza spesso pure il rapporto uomo-donna, anche se non se ne parla molto. La donna che vuole realizzarsi suscita nell’uomo che non è pronto a condividerne i successi paura, fastidio ed invidia.

Il caso di Giulia Cecchettin è emblematico. E a mio avviso ha colpito tutta Italia perché era lampante proprio quello che dici tu: la non sopportazione dell’autoaffermazione, dell’orgoglio personale, del successo. Giulia stava per laurearsi e completare un percorso, mentre il suo fidanzato non lo accettava. Sì, l’affermazione e l’ambizione delle donne infastidiscono molti uomini perché vengono spesso scambiate per egoismo o noncuranza degli altri, laddove invece spesso è il contrario: chi riesce ad affermarsi veramente è chi dimostra empatia e capacità di gioire e supportare i successi altrui come i propri.

C’è qualcosa di estremamente femminile e quasi materno in questa capacità di supportare.

Così come nella creatività: in fondo si tratta di un processo generativo e proprio alla generazione le donne sono state relegate per secoli e secoli. È un tema che emerge, sì, quello della creatività come maternità ma chiaramente non l’ho deciso a tavolino ed è stata più una conseguenza di un bisogno comunicativo che avevo. Il risultato di una ricerca, nella quale ho investito tanto e che ha dato vita al mio primo esperimento cinematografico: un film musicale dove ho messo veramente tutta me stessa.

Anche quello di “Gloria!”, insomma, è stato un processo generativo: ti aspettavi il successo che ha avuto?

Sinceramente no. Era il mio sogno da adolescente: mi avvicinavo al teatro, al cinema e alla musica con il desiderio di metterli assieme, da dietro la cinepresa. Ora l’ho realizzato e il riconoscimento del pubblico e della critica è un valore aggiunto che mi rende felice.

Parlando appunto di riconoscimento, quale artista donna italiana meriterebbe di essere ascoltata di più?

Ho scoperto Coca Puma e mi piace parecchio: è giovane, talentuosa e ha molto da dire.

A proposito del gioire senza invidia dei successi altrui, facendoli propri, c’è una canzone che avresti voluto scrivere tu?

Hai voglia, tantissime! Sicuramente L’anima non conta degli Zen Circus. Ma anche Sbadiglio di Levante, che ha una parte musicale con vibrazioni straordinarie, le sentirei molto mie.

C’è invece una tua canzone nella quale ti riconosci più che nelle altre?

Nota bene. È assai vecchiotta, ma c’è dentro tutto quello che ancora oggi penso. Il mio modo di essere e di fare nei confronti del mondo.

Per finire, lasciaci con due stimoli la cui “gloria” ti ha influenzata, facendoti diventare la Margherita Vicario che sei oggi.

Sicuramente Lucio Battisti: quelli che scriveva con Mogol erano dei veri e proprio cortometraggi, piccoli mondi da ricreare nella mente. Non a caso, quando mia madre si assentava per qualche ora e doveva lasciarci soli in casa, dava a me e ai miei fratelli il compito di mettere in scena una o più canzoni di Battisti, cosa alla quale ci prestavamo volentieri. E poi nonna Rossana: vorrei avere un quarto del suo coraggio e metà della sua curiosità.

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