“House Party”: il producer album di Deda guarda avanti senza nostalgia
Quando si parla di Deda vuol dire che si sta parlando di cose musicali importanti che stanno accadendo. Ogni volta che il panorama italiano del rap e dintorni ha vissuto dei momenti significativi Deda c’era e ha contribuito a rendere quei momenti ancora più importanti.
È stato decisivo con gli Isola Posse All Stars facendo parlare il rap in italiano e avviando la stagione delle Posse, con Neffa e Dj Gruff ha realizzato un pilastro come SxM, unico album dei Sangue Misto. Al fianco di Neffa, nei suoi album “107 elementi” e “Neffa & i Messaggeri della Dopa” a lavorare su brani diventati mitici come “Aspettando il sole”. Ha frequentato il soul e il funk col progetto Katzuma, e il jazz con Okè, senza dimenticare le atmosfere dei suoi dj set che ci accompagnano da anni.
Con le dieci tracce di “House Party”, il suo producer album appena uscito, ha chiamato a raccolta diverse generazioni di artisti, dalla old school all’urban, cucendo addosso ad ognuno di loro un abito musicale perfetto, a cominciare dal singolo apri pista “Universo”, con Fabri Fibra e l’amico di sempre Neffa. Scorrere gli ospiti della tracklist è una goduria: Al Castellana, Coma Cose, Danno, Davide Shorty, Emis Killa, Ensi, Frah Quintale, Frank Siciliano, Gemitaiz, Ghemon, Inoki, Jake La Furia, Mistaman, Salmo, Sean Martin.
Ma con Deda le scoperte non finiscono mai e grazie alla sua disponibilità siamo arrivati a parlare anche di hardcore punk…
Quando e soprattutto come ti è frullata in testa per la prima volta l’idea di questo producer album, di tutte queste “convocazioni” per comporre la tracklist finale?
Sì, risale forse a tre o quattro anni fa. Mi stavo dedicando ai miei altri progetti e le cose che stavo producendo sembrava che iniziassero ad avere dei punti di contatto col mondo del rap, ma anche del soul e in certi momenti dell’indie, almeno per come era diventato in quel periodo. Pur essendo cambiato io ed essendo cambiato quel mondo, ho ritrovato dei punti di contatto. Qualche anno fa mi è capitato di collaborare con Frah Quintale per una canzone ed è stata una cosa molto spontanea che abbiamo fatto così velocemente sull’onda dell’entusiasmo, per fare una cosa assieme.
E mi sono accorto che la musica di quel mondo, che possiamo chiamare urban, mi interessava molto. Anche il fatto che ci fossero dei momenti cantati, proprio perché la mia musica nel frattempo si era spostata in territori adatti a quello.
Puoi vederla un po’ come due cerchi che si sono chiusi e si sono ritrovati nello stesso punto. Da quella prima collaborazione poi in maniera molto naturale mi è venuto in mente di farne altre e iniziare, come dicevi tu, a convocare un po’ di personaggi, a sondare un po’ di disponibilità. Poi il procedimento di realizzazione del disco è stato abbastanza lungo e complicato perché per forza di cose il producer album, avendo a che fare con decine di artisti diversi, deve un po’ sottostare a dinamiche di tempi di realizzazione che cambiano a seconda di chi hai davanti in quel momento.
Come accennavi il tuo percorso musicale ha attraversato nel tempo vari generi, discostandosi anche dall’hip hop, penso al progetto Katzuma con sonorità soul e funk, ma più di recente anche al jazz con Okè. Il ritorno, il riavvicinamento al panorama rap come è stato? Considerando anche che nel frattempo molte dinamiche sono cambiate, non solo nel rap, e ci sono state grosse trasformazioni nel panorama musicale più in generale.
Certo, è sicuramente così, è sotto gli occhi di tutti che la musica in Italia negli ultimi dieci anni è cambiata tanto. Le nuove generazioni hanno, pertanto, secondo me, una ventata di freschezza che è servita a rendere le cose di nuovo interessanti. Finalmente in radio si sente un po’ di musica con i “bassoni”, insomma, prodotta con un’attitudine interessante rispetto invece alla musica che ha dominato per anni il mainstream in Italia.
Credo che ci siano un sacco di talenti e di cose molto interessanti. Alcuni di questi grazie al cielo sono riuscito a coinvolgerli nel mio progetto ma penso che ce ne siano tanti altri. Per forza di cose, essendo diventata una musica così diffusa, ne esce tantissima, ovviamente con momenti più o meno riusciti. Ma questo è inevitabile nel momento in cui i numeri aumentano così tanto. Siamo in un periodo in cui in Italia soltanto di rap escono probabilmente 30 o 40 dischi al mese.
Per me in generale, come dicevi, il fatto di aver frequentato vari generi credo che sia stata un’esperienza che mi ha aiutato ad aprire molto i miei gusti e saper apprezzare un po’ cose diverse tra di loro. Ho sempre cercato di assecondare le mie curiosità, i miei interessi musicali anche a costo a volte di chiudere dei capitoli per poi riaprirli quando ne sentivo il bisogno. Anche al progetto Katzuma, che ormai esiste da oltre 15 anni, mi ci sono dedicato in maniera alterna, quando mi interessava fare altro ho fatto altro, e questo penso che sia una libertà mentale, che per certe cose paga tanto.
Anche se un po’ più a distanza hai sempre seguito però il mondo del rap?
Ho sempre continuato a essere incuriosito da quel mondo anche se me ne ero un po’ distaccato. È un mondo che mi è sempre piaciuto tanto, che in qualche modo mi apparteneva, quindi ho continuato ad ascoltare a seguire tutti i vari momenti della scena rap e soul in Italia. Seguendo anche le varie evoluzioni, le ho viste succedere, mi sono sempre risultate molto comprensibili, anche vedendo un po’ quello che succedeva, o era già successo, all’estero.
Se ci pensi la scena in Italia ha seguito le dinamiche di quello che in altre nazioni europee era già capitato, come in Francia, Germania o Inghilterra.
Alcuni dischi italiani del passato, in ambito rap, hanno avuto la funzione di mettere insieme una tracklist tale da fotografare quella che era la scena di quel momento storico, mi riferisco a La Rapadopa di Dj Gruff, a Neffa e i Messaggeri della Dopa e in particolare a Novecinquanta di Fritz da Cat. Parliamo di epoche diverse, con scene differenti, ma House Party mi ha fatto venire in mente quei momenti…
Negli anni Novanta un disco come 950 di Fritz riusciva a fotografare, se non l’intera scena, comunque a dare un’idea di quello che stava succedendo. All’epoca la scena era molto ridotta e con un disco si poteva coprire quasi tutto o comunque una buona parte. Adesso penso che sia impossibile perchè come dicevamo, esiste tantissima roba che si sposta anche in territori diversi tra di loro. Si va da generi un po’ più trap, drill, che piacciono ai giovani fino a cose un po’ più mature, in termini sempre di età, che possono essere il rap e l’hip hop o il soul o la musica cantata.
Con questo disco volevo fotografare, con il contributo delle collaborazioni scelte, un po’ il mio di momento musicale e artistico. Mi interessava che fosse un momento utile per creare anche qualcosa di nuovo, che non esisteva.
In questo momento in cui le offerte musicali sono così tante e variegate, spero di essere riuscito a trovare una componente un po’ personale. Molti degli artisti con cui ho collaborato mi hanno poi detto che una cosa bella, che era piaciuta, di questo progetto, era proprio di aver fatto una musica che non avevano ancora fatto. Più di uno mi ha detto questa cosa, ed è stato un bel riconoscimento di questo tentativo.
Mi piacerebbe farti qualche domanda sul periodo storico tra fine anni ottanta e inizio novanta, senza nessuno sguardo nostalgico ma con la voglia di comprendere direttamente da te come si formarono quelle scene musicali, non solo quella rap ma anche quella hardcore punk con cui ci sono secondo me molti legami.
Ho frequentato molto la scena hardcore punk e l’approccio non nostalgico mi riempie di gioia.
L’esplosione del punk a livello mondiale cambia le regole, non solo dal punto di vista sonoro, nascono le autoproduzioni, le fanzine, si creano le prime reti e arrivano i primi spazi occupati in cui esprimersi e fare musica. In Italia Bologna, Pordenone, Firenze, recepiscono questa scossa. A Bologna il centro sociale l’Isola nel Kantiere e il collettivo hip hop Isola Posse All Stars raccontano anche fisicamente questo passaggio musicale. “Stop al Panico” è uno dei primissimi brani rap in italiano che racconta questo inizio. Siamo nel periodo della nascita delle Posse in molte città italiane.
Tu ne sei stato un protagonista assoluto, insieme anche a Neffa, ancor prima dell’esperienza Sangue Misto.
Come dicevi ci siamo incontrati all’interno di questo centro sociale a Bologna (L’isola nel Kantiere n.d.r.) che è stato un punto di riferimento inizialmente per la musica punk e hard core, dalla metà degli anni ’80 in poi. Il centro sociale è durato un po’ di meno, mentre il gruppo di persone che gravitava all’interno di quel posto ha fatto vivere la scena punk a Bologna ed era in contatto con le altre scene italiane.
Un mondo che si basava sull’autoproduzione, sulla comunità, sul contatto con le altre scene. Sono tutte caratteristiche che in qualche modo noi abbiamo portato poi in quella esperienza che è diventata i primi esperimenti di rap in italiano, il cosiddetto periodo delle Posse.
In realtà non c’era poi niente di nuovo perché in un certo senso anche il rap e l’hip hop americano hanno una serie di componenti molto simili a quel mondo della comunità, del fare le cose da sé. Proprio lo stesso modo di produrre musica che si usava e si usa spesso tutt’ora per fare hip hop nasce dal fatto di non avere intermediari, di fare tutto da sé con i mezzi a disposizione che si hanno. Quindi un dj con i suoi giradischi e basta, non serve altro.
Se ci pensi è un’attitudine molto punk.
Il modo di diffondere la musica in maniera autonoma con i mixtape, con le cassettine prodotte dai vari dj è una cosa che ha aiutato molto il rap a crescere a New York nei primi periodi; ed è una cosa che succedeva esattamente anche nel nostro mondo del punk. Aggiungici poi che i primi episodi di hip hop e di rap che sono arrivati alle nostre orecchie erano anche connotati da un’attitudine abbastanza critica nei confronti della società, penso ai Public Enemy, ai N.W.A.
Quindi per noi è stato veramente molto automatico innamorarci di quel mondo che per quanto così lontano e per certe cose diverso, comunque invece ci risultava familiare per altre e poi entusiasmante in un periodo in cui (e qui magari mi attiro un po’ di antipatie), secondo me il ciclo diciamo interessante della musica punk hardcore iniziava un po’ a declinare. E parlo del primi anni ’90. Io sono stato un grande ascoltatore e frequentatore di quella musica.
Credo che il massimo della creatività si sia raggiunto in quel periodo . Poi come tutti i generi ci sono stati momenti di calo, di novità. Quindi l’hip hop si è sostituito in maniera perfetta proprio in quel periodo quando era la musica più innovativa e più interessante del panorama mondiale direi.
È davvero interessante questo passaggio dal punk hardcore all’hip hop…
Sulla scena punk hardcore potrei andare avanti per ore. L’ho frequentata tanto, così come Neffa, che ha suonato in una band storica.
La scena punk hardcore italiana in quel periodo era riconosciuta in tutto il mondo, c’è stato un momento in cui le band italiane di quel genere erano seguitissime anche all’estero, e appunto un gruppo come i Negazione, dove Neffa ha suonato la batteria per un po’, sono stati in grado di fare, oltre a una serie di tour europei, anche un tour in America, che per una band che basava tutto sull’autoproduzione, sull’approccio spontaneo senza mediazioni, sono stati risultati importantissimi.
E su questo mi collego ai Sangue Misto resistendo alla tentazione di farti la domanda su eventuali reunion. Credo che invece sia stato un progetto unico anche perché fortemente legato al periodo in cui si è creato, a quella realtà storico sociale, a certe vostre influenze musicali (tue, di Neffa e di Dj Gruff) che hanno trovato una sintesi perfetta in quelle tracce e direi anche nelle grafiche, se penso all’influenza dell’immaginario punk nella copertina, tra l’altro realizzata da Speaker Dee Mo che come voi ha vissuto il passaggio punk/hip hop.
Come vivi questo tuo rapporto con Sangue Misto?
Sia io che Neffa siamo sempre state due persone che non avevano paura a guardare avanti. Quella dei Sangue Misto è stata un’esperienza di quel momento. È stata importante perché era in quel momento, e qualsiasi cosa che potremmo fare da adesso in avanti sarebbe tutt’altro, anche se fossimo sempre noi. Siamo entrambi due artisti – diciamolo una volta tanto, me lo dico da solo – che non hanno mai avuto timore di sperimentare cose nuove.
Per me è sempre stato molto importante guardare in avanti e non fermarsi troppo a celebrare il passato anche in momenti in cui invece il mio passato veniva celebrato anche più di quello che facevo nel presente. Quando ho iniziato il progetto parallelo (Katzuma n.d.r.) che si spostava in territori molto meno seguiti in Italia, ho un po’ subito il continuo riferimento invece a quel periodo là.
Ovviamente è una cosa che mi gratifica tanto, ci mancherebbe, mi fa sempre piacere sapere che quel disco in particolare ha segnato così tante persone e in qualche modo ha segnato un po’ la musica di quel genere in Italia. Però da parte mia era più importante concentrarmi su quello che dovevo ancora fare. Ho capito presto che per continuare a fare musica divertendomi, dovevo un po’ seguire i miei interessi per non rischiare veramente di annoiarmi troppo e per me fare musica deve essere divertente altrimenti non ho motivo di farla.
Ritornando al presente allora quali sono i tuoi ascolti attuali? Ci sono cose che potremo poi ritrovare nelle tue prossime produzioni?
Sono un po’ schizofrenico, ascolto veramente di tutto. Guarda, una delle cose che ho iniziato ad ascoltare come novità, nel senso di andare in un mondo che non avevo mai coperto più di tanto è la musica ambient, soprattutto quella giapponese. Mi sta incuriosendo tanto, ma spero proprio per me che non mi venga mai l’idea di fare un disco ambient. Negli ultimi anni ascolto tanta musica africana, oltre a dischi registrati nel passato, anche molte cose che stanno uscendo adesso.
Penso che sia una delle scene più interessanti al momento. E poi tante cose diverse. Cerco davvero di non farmi mancare nulla, viviamo in un periodo in cui la musica è così tanto accessibile che a volte si rischia un po’ la sindrome della troppa scelta, come quando sei al supermercato e non riesci a scegliere il gusto delle patatine che vuoi.
Chiudiamo provando a dare qualche appuntamento, anche se il rapporto tra producer album e live tour di solito è abbastanza complicato…
Per forza di cose un producer album è molto difficile da portare dal vivo. Per ovvi motivi, coinvolgere gli ospiti, o soltanto parte di loro è complicatissimo. Con la mia consolle giro da anni nelle situazioni più disparate. Da grandi festival, ai festini in casa, da qui il titolo del disco, House Party. La mia idea è un po’ quella di preparare un dj set apposito per presentare il disco, e poi se la fortuna mi assiste, eventualmente, coinvolgere qualcuno degli ospiti, ma non fare troppo affidamento su questa cosa perché appunto, a livello pratico e logistico sarebbe complicatissima.
Ti ringrazio tantissimo sia personalmente che a nome delle Rane per questa chiacchierata che siamo veramente felici di offrire ai nostri lettori.
Ringrazio anche io te, e un saluto a Le Rane.