La musica emerge, prima ancora nasce e poi si fa spazio in un ingranaggio complesso e talvolta insidioso. Ma la musica emerge. È ciò che sta succedendo per quella di Icaro, nome d’arte di Roberto Forlani, giovane cantautore romano classe 2000.
Il 5 aprile è uscito il suo primo album Dove La Luce Finisce: come un pittore, Icaro ha dipinto un quadro pieno di sfumature, di colori intensi, di luci ma anche di ombre, quelle di cui si ha più paura. Da sempre ci insegnano ad essere forti, integri, risolti, abituati a condividere i momenti felici con orgoglio. Ma quello che succede nel mezzo, appena prima di quella felicità, appena prima della consapevolezza, che cos’è? È buio, è dolore, è scoperta. Icaro racconta ombre e luci con cui, prima o poi, tutti noi dobbiamo fare i conti.
Ne abbiamo parlato insieme in un’intervista.
Quando hai capito che stava nascendo il tuo progetto? C’è stato un momento prima di Icaro?
È una cosa che sento da sempre. Ho iniziato a voler fare musica vedendola fare. Sono grande fan della scena internazionale e mi sono avvicinato a questo mondo grazie ad artisti come Ed Sheeran, Justin Bieber… Desideravo essere come loro. È cominciata così la scoperta di me stesso: ho comprato il mio primo computer, ho iniziato a studiare chitarra, pianoforte. Ispirato dalle mie reference mi ero messo a scrivere solo in inglese, successivamente ho capito che avrei potuto farlo in italiano, grazie anche al supporto del mio insegnante di piano. È nata una mezza sfida, ho cercato di collimare le sonorità internazionali con dei testi in italiano. E ho scelto il nome Icaro.
Perché Icaro?
Da piccolo giocavo alla Play-Station e mi registrai con il nickname Icaro, che all’epoca fu una scelta dettata dal caso. Con il passare del tempo e il mio approccio alla musica me lo sono ritrovato calzare perfettamente perché rappresenta il rischio, prendere il volo senza sapere dove si va. È quella sana incoscienza che ci vuole quando si sceglie di fare questo mestiere senza piani B. Ho iniziato infatti a fare diversi lavori solo ed esclusivamente per riuscire a pagarmi le lezioni di musica, per mettere su il mio piccolo studio.
“Dove La Luce finisce” è il tuo primo album. Da che tipo di emozioni è nato?
Il concetto di Dove La Luce Finisce è collegato a ciò che si vede nelle copertine dei miei singoli: ognuna ha un colore predominante che rispecchia le emozioni a cui si riferisce. Ho cercato di unire l’emotività ai colori. Il nome del disco invece è stato scelto all’ultimo, circa due mesi fa. Inizialmente sarebbe dovuto essere “Io”, perché tutti i colori rappresentano le sfumature che compongono l’io di ognuno di noi. Confrontandomi un po’, alla fine ho capito che cercavo un concept più diretto e che facesse domandare qualcosa a chi lo ascolta.
Questa luce quindi finisce oppure non si sa dove va a finire?
Questo disco l’ho dedicato alla paura. Molte volte si fatica a fare i conti con le proprie paure e insicurezze, ma soprattutto con il voler restare al buio. Sui social, ad esempio, vediamo sempre mettere la felicità al primo posto, senza dare l’importanza giusta a quanto serva stare male per stare bene. Quando la luce finisce iniziano i colori. In tutti i colori che vediamo c’è sempre una piccola percentuale di buio. Il colore nasce dal riflesso che la luce crea. Rimanere al buio serve perché quando arriva la luce riesce a far risplendere tutti i colori che abbiamo. Quando viviamo un momento di buio, non dobbiamo andare a ricercare la luce, serve restarsene al buio. Quando la luce arriva, arriva per un motivo.
Da Non sei come me: “Mi volevano più trap poi originale è meglio, lo so sei bravo ma ancora non è il tuo momento / Volevano pagarmi e stabilire loro il prezzo ed io non chiedevo champagne solo mio padre contento”.
Solo su questi versi si potrebbe buttare giù un’intera intervista. Questo testo prende ispirazione da una esperienza personale?
Sì, è un testo che nasce dalla frustrazione e dalla rabbia, non te lo nascondo. Non a caso, la copertina prende il colore rosso. Ogni lavoro attraversa delle fasi di buio, di rabbia, che col senno di poi si riescono a superare e ad accettare, crescendo.
Com’è fare musica per un giovane artista emergente, oggi, in Italia? È un mondo che mette paletti agli artisti stessi?
È un mondo difficile, in cui devi fare i conti con tante cose. Oggi non basta scrivere belle canzoni, ed è la cosa che personalmente soffro di più. Credo che il pubblico non debba mai essere sottovalutato e penso che la buona musica alla fine vinca sempre, però per un artista emergente non è abbastanza. Bisogna curare i social, avere contenuti fatti bene. Non mi lamento, queste sono osservazioni e mi adeguo a quelli che sono i tempi perché è il mestiere che voglio fare. Io ho fatto il cameriere, ho lavorato in cantiere e ogni lavoro ha le sue difficoltà.
Quando ti approcci ad un mondo che ha un mercato così vasto ti senti dire “ora va la trap, prova questo, quello”. Serve tanta forza e personalità per riuscire a dire “no, io voglio fare la mia musica”. Poi di solito mi viene detto “ah però tu fai il pop” ma io sono sicuro che anche 30 anni fa avrei fatto questo, non l’ho scelto perché “è il pop” ma perché mi smuove.
Che rapporto hai con le critiche?
Ti dico la verità, non ho mai avuto troppe critiche da poterti dire come affronterei questa eventualità. Sicuramente mi è stato detto qualcosa del tipo “vai a lavorare”, ma quando ti esponi è ovvio che ti tocca prendere sia il bene, sia il male. Penso che la cosa peggiore sia esporsi e non essere capito. Se il commento rimane sterile come un “vai a lavorare”, non ha poi molto valore. In questo mondo c’è tanto bene e tanto male. È un continuo lavoro.
Le critiche possono essere anche spunto di analisi per chi le riceve e portare a nuove riflessioni e stimoli…
Assolutamente sì! Ho letto con molto piacere un libro che si chiama “La pratica” di Seth Godin, uno scrittore economista che parla del processo creativo confrontandosi con diversi artisti famosi. Riguardo alle critiche c’è una frase di Joni Mitchell che dice “puoi rimanere uguale e proteggere la formula che ti ha dato il successo iniziale, ma finiranno per crocifiggerti se lo fai. Se cambi, però, ti crocifiggeranno perché sei cambiata”.
È sempre difficile accontentare tutti. Però si, come dicevi tu, credo che ci sia un lato positivo. Nel libro vengono chiamate “critiche generose”: sono quelle che vanno oltre al semplice “trovati un lavoro”, che non vuol dire niente. Le critiche generose ti dicono qualcosa in più, ti danno una spiegazione e, di conseguenza, la possibilità di elaborare e capire come migliorarti. È così che si può crescere. Quando la critica è superficiale non c’è margine di analisi, no?
E a proposito di cambiamenti… Il filosofo Gautama Buddha diceva che il cambiamento in sé non è mai doloroso, ma la resistenza al cambiamento lo è. Nella tua canzone “Chance” dici: “Dimmi come si fa a restare gli stessi se tutto cambierà”. Tu hai paura dei cambiamenti?
Innanzitutto, sì. Dipende però sotto quale punto di vista. Tendenzialmente, i cambiamenti fanno paura perché ci si allontana da ciò che si conosce per cercare qualcosa di ignoto; andare verso il futuro significa andare sapendo com’eri ma non sapendo come sarai. In Chance parlo di quel cambiamento di cui si viene accusati in una relazione con frasi come “non sei più lo stesso”, però come posso rimanere lo stesso se tutto è cambiato?
Quindi non si può rimanere gli stessi, no?
Direi di no. Si può provare forse, ognuno con le proprie esperienze.
Diciamo che ognuno viene riconosciuto per quello che è pur essendo cambiato: se Icaro dovesse cambiare, sarebbe comunque Icaro.
Io ti risponderei che Icaro è Icaro proprio perché cambia. Credo sia la definizione più giusta.