Questa storia inizia con una casa fatta di catrame: il ventre di una madre incinta che fuma. E finisce con l’ultima casa accogliente: Elena, che come un’edera si arrampica libera. Due donne, prima dell’inizio e dopo la fine. Prima che la vita esca allo scoperto e dopo che l’amore ha dato finalmente un volto all’eternità del mondo di cui siamo parte, anche se viviamo sempre “da millesimo di secondo” (Catrame).
C’è una donna, prima e dopo. E a volte pure durante, nel mezzo. Come ci racconta Bestia rara, traccia posta esattamente a metà del disco di cui vi sto scrivendo, pronta a narrarci la storia di una donna che è madre (mancata), moglie e puttana. Una donna che raccoglie in sé la sofferenza di tutte le donne “nate male” come lei.
Riassumere L’ultima casa accogliente degli Zen Circus (uscito lo scorso 13 novembre per Universal) come un disco sulle donne sarebbe tuttavia riduttivo, oltre che nient’affatto veritiero. Nell’album, sono infatti presenti molteplici riflessioni, che si intrecciano libere e altrettanto libere si dipanano. Come quella sul futuro del genere umano, immaginato in 2050. O come quella sull’amore, che già abbiamo visto essere una dittatura nell’omonimo pezzo con cui il gruppo ha partecipato al Festival di Sanremo, nel 2019.
La domanda che fa da sostrato all’intero disco è quella riguardante la nostra ultima casa accogliente, il nostro corpo: inteso in senso stretto come individualità e in senso più lato come la comune appartenenza ad un’umanità intrinsecamente cangiante. Com’è questa casa? Quali elementi la caratterizzano?
“Il nostro corpo è l’ultima casa accogliente” hanno dichiarato gli Zen, “l’unica navicella spaziale in grado di farci viaggiare attraverso l’universo dell’esistente. Un corpo trasparente, visibile e vulnerabile, che celebriamo con nove canzoni fatte di testa, cuore e polmoni. Case che possono essere sia rifugi che prigioni, circondate le une dalle altre, a formare questa enorme metropoli chiamata umanità. Più suonato che pensato, più bene di conforto che prodotto, questo disco è musicalmente il più libero che abbiamo mai fatto”
Per capirne meglio i contorni, ho posto loro tre domande. Ecco che cosa mi ha raccontato Karim Qqru.
Siamo accendini senza sigarette: questa di “Appesi alla luna” sembra la descrizione delle nostre vite attuali. Costretti come mai prima all’isolamento, sembriamo in tutto e per tutto dei fuochi, che divampano senza poter accendere un bel niente. Come avete vissuto questi mesi così particolari?
Siamo stati fortunati, su questo non ci piove, soprattutto in rapporto al disastro abbattutosi su alcune province del nord. Da un lato, dopo anni senza pause, abbiamo avuto la possibilità di passare del tempo a casa, stare con le persone che amiamo e lavorare con calma alla preproduzione intensiva che avevamo fatto per il disco nuovo poche settimane prima del lockdown. Credo che questo unicum nella storia occidentale degli ultimi 75 anni abbia, volente o nolente, portato a vederci alla specchio in modo diverso, scoprire cose nuove di noi stessi, in positivo ed in negativo. Viviamo in una società intasata di impegni e stimoli; siamo abituati per default ad avere sempre la quinta marcia inserita, spesso senza rendercene conto. Questo scossone ha messo in risalto le priorità, le fratture, ma anche mille tic privati e collettivi.
“Come se provassi amore” descrive in pochi versi la fluidità del tempo: il futuro che già possiamo ricordare e il presente che, colando fra le dita, diventa ormai passato. Se doveste pescare fra l’oceano di tempo che serbate nella memoria l’immagine più fluida, psichedelica e significativa della vostra storia come band, quale sarebbe?
Sicuramente la registrazione di Doctor Seduction nell’estate del 2003, ovvero il primo disco inciso con la formazione attuale. 30 giorni deliranti spersi nel nulla, rinchiusi in un casolare dimenticato ai margini di un borgo sul Piave di 40 anime. Niente acqua corrente, pezzi di lana di roccia usati come materassi, 40 gradi di temperatura media e tanta psichedelia involontaria.
Il futuro di “2050” sembra costellato da quella disperanza narrata da Àlvaro Mutis: la speranza nella disperazione. In un equilibrio precario fra città sommerse e stati uniti del mondo, il genere umano si ritrova a trasformare in guerra la pace e a dichiarare di aver cambiato tutto, anche il corso dell’acqua corrente, senza aver cambiato niente. Quanto è distopico questo quadro e quanto invece può corrispondere al vero? Nella disperanza del nostro futuro, prevarrà speranza o disperazione?
Crediamo che l’essere umano si adatti e si abitui a tutto. Fa parte della sua essenza, è qualcosa di ancestrale, impossibile da abbattere o estirpare. Stiamo già vivendo in uno scenario distopico se messo a confronto con la nostra vita di solo 10 anni fa. Nonostante questo la vita fa avanti, tra gioia, dolore, recriminazioni, disillusione, rabbia e pace, in un gran minestrone sociale ed emotivo che ci dà tanto da un lato e ci inginocchia dall’altro.
L’ultimo disco degli Zen Circus arriva a due anni di distanza dal precedente album di inediti, Il fuoco in una stanza, e a coronamento di una carriera lunghissima: 10 album, un EP, una raccolta, un libro anti-biografico e un’eternità di concerti, che hanno consacrato il gruppo come una delle realtà più apprezzate del panorama musicale nostrano. Il successo non sembra, tuttavia, aver mai condizionato le scelte della band, da sempre fedele a se stessa. Una fedeltà che ha reso questi folk-punk-rockers toscani un vero e proprio rifugio a cui fare sempre ritorno, quando fuori è troppo freddo.
Al di là di ogni retorica, il circo zen è davvero la nostra ultima casa accogliente.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.