Jacopo Et: il nuovo Dylan Dog del mondo indie (ma non diteglielo)
Jacopo Ettorre, nato a Bologna nel 1990, è un tipo piuttosto sicuro di sé e allo stesso tempo pazzamente ironico che non le manda certo a dire. L’ho intervistato per saperne di più sul suo progetto, Jacopo Et, adesso che non è ancora il divo pop delle cronache musicali con 7 minuti secchi a intervista dentro ad una press area di un festival qualunque e può dedicarmi tutto il tempo che voglio. Seduti al bar, prima di iniziare, mi dice: “vorrei che si tornassero a comprare i motorini al posto di quei cazzo di smartphone, che la piantassimo con tutto sto politically correct figlio delle multinazionali americane Vorei che andassimo di più al bar sotto casa e meno ai fottuti raduni degli Youtuber e che ci rendessimo conto che la vita normale è una figata.”
Credo possa bastare per descrivere l’autore dei due singoli (“Fulmini” e “Fuori”) che in pochi mesi lo hanno reso noto ai più per il suo immaginario che tanto ricorda quello dei lontani 883, per la sua rabbia da ragazzo di provincia e quel modo di fare impertinente (per non dire altro) che fa rimbalzare le sue Instagram stories da un profilo all’altro.
Jacopo Et parte da una scena bolognese che ultimamente si sta facendo sentire: quanto ha influito la città da cui provieni sul tuo progetto artistico?
Dipende. Al momento non ho grosse alleanze artistiche a Bologna. All’Infedele ci vado poco, al Covo quasi zero e in generale le cricche indie bolognesi tendenzialmente mi schifano perché so troppo di dopobarba e poco di libri gialli e sigarette rollate. Io poi sono di San Ruffillo che è sostanzialmente un paese dentro la città e non è zona di giri giusti, dalle nostre parti ci troviamo tutti al bar di riferimento e siamo cresciuti a pallonate, motorini e Marlboro.
In passato ero legato al rap bolognese, che mi è sicuramente più vicino in termini di vedute, però poi ho iniziato a frequentare Milano sempre di più e un sacco di gente l’ho un po’ persa per strada. Bologna però mi ha dato tantissimo a livello musicale: sono cresciuto con tutta la musica bolognese, da Lucio Dalla a Joe Cassano e Inoki passando per i Lunapop. E poi San Ruffillo mi ha dato tanto da raccontare, quindi da questo punto di vista mi sento di dire che la mia musica è decisamente local. In generale sono comunque un campanilista bastardo e difendo la mia città di stronzi a prescindere.
Gli anni ’90 sono ovunque: dai testi delle canzoni fino all’estetica delle copertine. Da dove arriva l’ispirazione?
Da tutto, dal primo disco che mi hanno comprato i miei (Remix ’94 degli 883). Dalle estati lunghissime che passavo in Toscana da mia madre, dai cabinati arcade del Circolo Arci, dai pomeriggi passati a pulire il carburatore di un Moto Guzzi Dingo che rivorrei adesso, dalla musica che ho sempre provato a copiare (alle medie volevo fare il dj dance). Dalla collezione di Dylan Dog che aveva un mio cugino in Calabria, dalle feste delle scuole in cui suonavo Molella, dal mio anno di nascita (1990, ndr), dalle Nike più belle di sempre (ovvero quelle del decennio ’89-’99), dalle serate al Musik, dall’uomo super duro che volevo essere da ragazzino.
Sappiamo che sei autore di canzoni da tempo e hai collaborato a diversi successi dell’industria discografica attuale: com’è adesso lavorare da solo a qualcosa di completamente indipendente?
Sì è vero, scrivo per altri da parecchio e da luglio 2017 sono autore per Sony ATV Music Publishing che mi ha permesso di fare musica al posto che morire giovane nell’ufficio dove lavoravo. Ho sempre provato a fare anche la mia musica, ma complici visioni e scelte sbagliate avevo messo in piedi un progetto che oggi mi fa totalmente schifo e che non avrei seguito.
Ho passato gli ultimi due anni della mia vita a cercare di raccontare la mia storia in modo coerente, a sbattermene della “radiofonicità” e “forza” dei pezzi. Il che non significa che mi sentissi autorizzato a pubblicare canzoni di merda anticonformiste come certi artistelli “indie” – passami il termine – con il gusto per l’orrido. Me ne sono sbattuto per scrivere canzoni che mi facessero stare da Dio, quelle canzoni che difenderesti anche davanti al discografico più figlio di puttana scaltro che esista. A maggio ho finalmente deciso di iniziare a pubblicare i pezzi, a curare gli artwork, i video, la promozione e tutto il resto. Sono diventato una sorta di maniaco del controllo e sta roba mi distrugge di ansia, ma dall’altra parte mi piace un casino.
Quali sono le tue principali influenze artistiche?
Gli 883 di Hanno Ucciso L’Uomo Ragno, Nord Sud Ovest Est e La Donna Il Sogno & Il Grande Incubo, Haddaway, Molella, Perturbator, Kavinsky e i Justice. Anche un po’ gli Oasis non influenzano tanto la mia musica ma sono comunque un ottimo esempio di violenza.
Hai uno stile assolutamente fuori dal comune: sarebbe difficile anche pensare al tuo posizionamento in una playlist di Spotify, ad esempio. Come descriveresti il tuo progetto?
Utilizzo questa domanda per dire minchiate tirate fuori da un comunicato stampa: il mio progetto è Dylan Pop, Progressive Provincia, 88trap e Trance 3000. Lo so, non si capisce un cazzo niente.
Quindi possiamo dire che, come Coez e Carl Brave con il neonato Graffiti Pop, anche tu sia un po’ precursore di un nuovo genere?
Magari prima mi faccio il culo, mi sbatto e faccio due concerti… e poi parliamo di precursori. Al momento sono un pazzo schizzato che urla a un microfono vecchie storie. O anche la versione biker di Alberto Tomba (ride).
Cosa stai ascoltando di più ultimamente?
Le classifiche e le playlist di settore di Spotify (tipo Graffiti Pop, che hai citato prima). Di roba nuova mi piace Gente, di roba non nuovissima ma che ho scoperto recentemente mi piacciono Generic Animal e Giorgieness.
Se potessi collaborare con qualcuno, chi sceglieresti?
Sceglierei la Sergio Bonelli, per fare un fumetto sulla provincia oscura.
Dai, fai un po’ di spoiler: quanto manca alla prossima uscita?
Manca super poco, mi metto il gel e sono pronto.
Consigliaci tre pezzi da mandare in radio!
- Haddaway – What is Love
- Mo-Do – Eins Zwei Polizei (gendarmerie mix)
- 883 – Cumuli
di Giorgia Salerno