“Kintsugi” dei Voina è il canto di un disagio generazionale, che si evolve
Quattro anni dopo Ipergigante, che uscì il giorno di San Valentino del 2020, la scorsa settimana i Voina hanno dato alla luce il loro quarto album in studio, Kintsugi. Il titolo rimanda all’arte, tipica della cultura giapponese, di riparare con l’oro: le crepe rimangono visibili, ed è proprio questa tecnica di restauro ad impreziosire gli oggetti.
L’album che è un inno al rimettere insieme i pezzi, ma anche una celebrazione delle crepe, perché è solo da lì che può entrare la luce – come cantava Leonard Cohen. Più di tutto, però, Kintsugi è un inno ai Voina, che rimangono insieme, uniti e continuano a raccontare il disagio di una generazione con la loro musica.
Il 22 Febbraio 2020, una settimana dopo l’uscita di Ipergigante, andai a un concerto dei Voina a Milano.
Era il giorno in cui fu reso noto il primo caso di covid a Codogno. Allora, quasi nessuno ne aveva intuito la portata trasformativa, ma nell’aria iniziava ad aleggiare una specie di timore pre-apocalittico. Ecco, per me i Voina sono esattamente questo: cercare di battere sul tempo la fine del mondo.
Da sempre, le canzoni dei Voina narrano il disagio, la provincia, la paura di diventare quel prototipo di adulti, dal quale ci si è sempre definiti per contrasto. Il nuovo album parte proprio da qui, ma porta con sé l’evoluzione personale e musicale di una band con una carriera più che decennale. Abbiamo avuto l’occasione di parlarne con Ivo Bucci, il cantante. Ne è nata una chiacchierata che, più che un’intervista, è un’esperienza complementare – e necessaria – all’ascolto del disco.
“Kintsugi” racconta di quando si rimettono insieme i pezzi, ma mi sembra che sia anche un disco che celebra queste inevitabili crepe.
Abbiamo chiamato il disco Kintsugi per fare un’ode alla band, più che a noi stessi. Ormai la band ha più di dieci anni: abbiamo attraversato momenti difficili, dal covid ai tour infiniti. Riuscire sempre a trovare la voglia di tornare in studio e ricominciare a scrivere, rimettendo insieme i cocci, è una qualità notevole. Ed è proprio da qui che deriva il titolo dell’album.
È un disco che sembra scritto per essere suonato dal vivo: non vedete l’ora di salire sul palco, e portarlo in tour?
Assolutamente sì, abbiamo moltissima voglia di risalire sul palco! Il disco è stato registrato in presa diretta, ad eccezione delle voci. Ci sono anche degli errori, ma è proprio quello che volevamo. Cercavamo un album sincero, che nascesse in sala prove e mantenesse quel modo di essere vero.
Sono passati nove anni da “Noi non siamo infinito“, il vostro primo disco. Anche oggi, come allora, cantate di malesseri interiori, di disagio, e dei modi per conviverci. È il malessere che appartiene a una specifica generazione che quando avete iniziato aveva venti/trent’anni, e ora ne ha trenta/quaranta, o è un malessere con cui tutti, arrivati al giro di boa dei vent’anni, devono fare i conti, ma poi se ne va?
Mi piacerebbe molto dirti che è un disagio che esiste soltanto tra i venti e trent’anni! La mia generazione ha vissuto una lunga post-adolescenza, fatta di difficoltà nel trovare lavoro e di grandi aspettative che i genitori riponevano su di noi. Questo ha allungato, appunto, la fase della post-adolescenza, e ha creato questo disagio che raccontiamo. Credo che ne porteremo sempre con noi una parte, è stato sicuramente formativo.
Nei nostri dischi, raccontiamo l’evoluzione di quel disagio: nel 2015, ai tempi del primo album, avevo appena finito l’università. Con il tempo, quella condizione si è sviluppata, è mutata, ed è quello di cui oggi parliamo in Kintsugi. Quindi sì, è il disagio di una generazione, che si evolve.
Oltre al disagio, un altro tema ricorrente dei vostri album è la provincia. Nel rap o nella trap, spesso, la provincia è descritta come violenta, come un posto che ti costringe a una lotta per la sopravvivenza fisica. La vostra provincia invece è più decadente, più paesaggistica, non c’è quella minaccia per la propria incolumità: è una scelta stilistica, o è un modo diverso di viverla?
Ci stavo pensando giusto ieri, mentre guardavo Nuova scena su Netflix (mentre giocavo con mia figlia!). Ad un certo punto, Geolier dice che lui viene dalla periferia, e vuole andare in centro; quelli del centro, invece, dove vogliono andare? Nella serie, la provincia viene narrata con questa violenza che dici tu, anche con questa prosopopea. È un cliché, come è anche un cliché la provincia che raccontiamo noi, che deriva dal grunge anni ’90 – Kurt Cobain che viene da Aberdeen e non da Seattle.
Sicuramente, la provincia che raccontiamo noi è uno strano posto, ma è anche il luogo dove abbiamo deciso di vivere. Quasi tutti i membri della band hanno studiato fuori, hanno vissuto esperienze altrove, ma poi hanno scelto di tornare. Io sento che la mia città, Lanciano, è la mia condizione di esistenza. Anche noi, come i rapper, quando all’inizio suonavamo a Milano, avevamo una fame diversa. Con il passare del tempo, però, e anche nei testi di questo disco, sento che la provincia è sempre meno nemica, sempre più vicina all’ideale di vita a cui aspiro.
Il primo singolo estratto dell’album è “Che vita di merda“: forse il vostro pezzo più diretto.
Sì, c’è stata una scelta stilistica, che in questo brano si nota molto di più, ma che è presente in tutto il disco. Abbiamo cercato di eliminare gli orpelli. Io non sono mai stato troppo pomposo nella scrittura. Stavolta, però, anche perché è un disco registrato in presa diretta, in stile sala prove, ho voluto mantenere quest’idea anche nel modo in cui i brani venivano composti.
Che vita di merda è il pezzo più esplicito, con una certa dose di sincerità. A volte temo che nei nostri pezzi ci sia un’eccessiva dose di negatività, ma in realtà questa canzone per me è proprio un anthem che aiuta a superare la difficoltà: la situazione è estrema, ma lo sfogo permette di andare avanti.
E forse il pezzo meno negativo del disco è Fortini. Per il sound, ma anche per quello di cui canti, mi sembra un po’ il seguito di Ossa: questa volta però, l’amore raccontato è meno distruttivo, meno infuocato, più intimo. Crescere porta anche questo tipo di pace?
Hai preso proprio il centro, sì. Fortini è l’evoluzione di Ossa. Io sono un monogamo convinto da tempo, per questioni caratteriali. Sono sposato da un anno e mezzo, e Fortini è proprio l’evoluzione dell’amore che provo per mia moglie. Quando ho scritto Ossa, circa sei anni fa, ero ancora in una fase post-universitaria, e vivevo l’amore con quel tipo di libertà lì, che deflagrava come dicevi tu nella distruzione, nell’esplodere insieme. Fortini racconta dell’amore che matura.
Oggi ho una figlia, sto con mia moglie da tantissimi anni. Questo pezzo racconta proprio la stessa cosa, anche qui siamo noi due contro il mondo, però questo amore è più tenero. Volevo raccontare la tenerezza e la gioia di essere al sicuro solo tra quelle gambe.
In “La Pubblicità”, cantate “lo yoga non va più di moda, basta col salutismo, torniamo alla droga”. È un’invettiva contro l’esoterismo come ricerca del senso della vita, o contro le persone che fanno della ricerca del senso della vita tramite l’esoterismo l’unico tratto della loro personalità?
Sicuramente è più sulle persone! Quando lo yoga, la meditazione, la spiritualità diventano una storia instagram – parliamo di quello! Non ce l’ho con lo yoga, conosco tante persone che fanno yoga, e poi non ti rompono i coglioni per tre ore dicendoti che fanno yoga. Anche il salutismo, ad esempio, o il veganismo, sono cose che di per sé sono super positive, ma a volte diventano delle medaglie di moralità, degli attestati di superiorità morale, ed è insopportabile. La critica che facciamo è lì.
C’è un pezzo nell’album, Mal di gola, molto diverso dal resto della vostra produzione: un brano essenziale, chitarra e voce, interamente acustico. Ho pensato che l’avete scritta perché, rispetto al passato, ora nei concerti vi serve una pausa dal pogo per riprendere fiato.
Nell’inserimento del brano nel disco sicuramente ci abbiamo pensato! Da un paio d’anno a questa parte (siamo diventati vecchi da un po’!), quando andiamo in tour, facciamo una prima parte iper-spinta, poi tiriamo il freno a mano con alcune canzoni in acustico (di solito suoniamo Stanza) e poi ripartiamo come degli assassini per la seconda parte! Quindi sì, quel pensiero era presente quando abbiamo deciso di includerla nell’album.
Ho sempre sognato di scrivere una canzone per mia figlia, da quando è nata – un giorno ci riuscirò, te lo giuro, e ti farò piangere, vi farò piangere tutti! Per adesso però, appena scrivo quattro parole poi mi viene da piangere come un pazzo.
Questa canzone, che scrissi un annetto e mezzo fa, per alcune cose ci si avvicina. Racconta il concetto di cura, ma soprattutto di essere il rifugio per qualcuno mentre fuori c’è il casino. Parliamo di “scambiarsi il mal di gola”, come puoi immaginare mia figlia ci passa mille malattie, come è normalissimo che sia. L’avevo messa in standby, poi l’ho ritirata fuori mentre stavamo scrivendo Kintsugi. Sono stato un cagacazzi enorme, gli altri membri mi hanno odiato. Dicevano, “mettiamoci la batteria…”, ma io mi sono opposto, l’avevo scritta così e volevo rimanesse così.
Adesso però ci spero veramente sulla canzone su tua figlia.
Eh, è difficile…
Sempre in Mal di gola, dici che ora che sei cresciuto apprezzi cose come il brutto tempo e la lentezza: hai iniziato ad apprezzare anche il jazz?
No, non sono diventato uno che compra i vinili jazz. Però a volte, quando faccio delle cene con gli amici, e metto la musica in shuffle, a volte parte il jazz, e non cambio canzone. È normale, si cambia. Quelle cose che cantavo ne Il jazz, alla fine, erano delle paure che si legano a quanto dicevamo prima sulla post-adolescenza. Avevo il timore che, andando avanti, potessi perdere qualcosa di profondamente nostro. Diventare grandi vuol dire inesorabilmente non essere più quelli di una volta.
Io sto ancora vivendo l’esperienza di diventare grande, alcuni giorni, sì, mi ci sento, ma altri mi sento un bambino di dodici anni! Quello che ho scritto all’epoca, ne Il jazz, era semplicemente una paura. Io dicevo di non voler ascoltare il jazz perché ascoltarlo voleva dire esser diventato grande – ma se ti piace, ascoltalo!
[Qua Ivo si è scusato, se stava parlando troppo: la verità è che, della paura di ascoltare jazz e di diventare grandi, trecento ore di conversazione non sarebbero abbastanza. L’altra verità è che, quando gli artisti raccontano i dischi in modo così complementare e profondo, un’intervista è come ascoltare un album, e raramente uno si lamenta che l’esperienza dura troppo.]
Ogni vostro disco, dite, può sempre essere l’ultimo. Tralasciando la canzone su tua figlia, che spero in ogni caso pubblicherete… Kintsugi è l’ultimo disco dei Voina?
Non lo so, questa parte della nostra vita è molto importante, ma inserirla nei compartimenti stagni della quotidianità non è facilissimo. Una volta fare migliaia di chilometri, dormire pochissimo non era stressante, ma le cose cambiano. Dopo Yoga, il nostro EP del 2022, mi sono chiesto se volevo fare un altro disco, e mi sono risposto di sì. Mi sono costruito da solo una sala prove, per dare anche simbolicamente un posto a quella parte di me. Non so cosa penserò tra sei mesi, però abbiamo qualche pezzo già scritto, che mi rende vagamente ottimista nel pensare che probabilmente non sarà l’ultimo disco.
KINTSUGI TOUR
01.03 – Scumm, Pescara (Nuova data)
02.03 – Scumm, Pescara (Sold out)
07.03 – Arci Bellezza, Milano
08.03 – Covo Club, Bologna
15.03 – Rockish c/o Spazio211, Torino
16.03 – Capanno Blackout, Prato
23.03 – Febbra Rock c/o Wishlist, Roma
30.03 – Sound Music Club, Frattamaggiore (NA)
05.04 – Magma, Tolentino (MC)
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.