“Che effetto fa l’aria sulla pelle?” Una domanda innocua, gentile e brutale insieme, incastonata fra le note della prima traccia. I Campos mi accolgono in questo modo, tra sonorità ancestrali, che suggeriscono luoghi diversi e lontani, dove la natura è davvero padrona del vivere, ma nel senso più strettamente etimologico del termine: padrona e patrona, protettrice.
“Hai detto bene” conferma Simone Bettin, leader del gruppo, con cui ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere al telefono, “la natura per noi è molto rilevante. Sia per quanto riguarda i testi che per quanto riguarda la musica. Però questa rilevanza non la ricerchiamo, se non in modo naturale, per l’appunto. Ci viene spontaneo osservare la natura e capire le svariate interazioni fra ambiente ed essere umano. A volte si creano situazioni di conflitto, altre volte situazioni di armonia. In generale, comunque, questo discorso ci ha sempre interessati”
Latlong, il nuovo lavoro dei Campos uscito lo scorso 27 novembre per Woodworm/Universal, è in tal senso sinceramente ecologico e analogico: “aria su aria, pietra su pietra”, come cantano in Dammi un cuore.
Ma, proprio quando pensi di averne catturato l’essenza, arrivano gli innesti più elettronici, a dare alla situazione una cornice ancora diversa
“L’esplorazione che facciamo, musicalmente parlando, è costante” continua infatti Simone, “cerchiamo di rendere i suoni elettronici più naturali possibili. A volte anche sporcandoli, in modo da creare commistioni nuove che riescano a dare originalità all’insieme. Mescolare il suono è qualcosa che ci stimola molto, ma proprio per questa stessa ragione i nostri orizzonti musicali restano aperti e cangianti: la direzione in cui stiamo andando ci piace, ma non escludiamo nuove sperimentazioni”
Ecco allora che, in Latlong, naturale e sintetico sembrano fondersi, con la maestria e la magia di antichi riti. Lo capiamo bene in una traccia come Arno, un fiume elettronico che non smette però di essere fiume, natura, dando vita a poco più di un minuto sognante.
E questo sognare equivale forse a quel lasciarsi andare, cullati dall’acqua e dalla musica, cantato in un altro pezzo del disco: Figlio del fiume.
“Non aver paura di ascoltare, di lasciarti andare”: sembra quasi un appello al fruitore dell’album, un augurio che i Campos fanno a tutti noi
“Senza dubbio!” mi dice Simone, “Spesso quando scriviamo ci mettiamo dentro un sacco di vita vera, vissuta e personale. Questo augurio è quindi, da una parte, un modo per invitare prima di tutto noi stessi a lasciarci andare, dall’altra vorremmo poi che chi ascolta la nostra musica provasse qualcosa di analogo. Ci piace accompagnare l’ascoltatore in un viaggio, che ha come via e meta la libertà”
Forse Latlong è allora proprio un inno alla capacità di lasciarsi andare liberi. Come la natura, del resto. Lasciarsi andare alla vita, all’amore e alla musica. Una musica di cui è patrona (e padrona) Santa Cecilia, titolo di un’altra traccia del disco. E una musica il cui rumore risuona nei ritmi tribali e quotidiani che ogni singolo pezzo sembra portare con sé.
Mi torna alla mente, in questo senso, un documentario norvegese uscito nel 2019, Polyfonatura, che ritrae l’eccentrico artista sonoro Eirik Havnes intento a preparare il suo progetto più ambizioso: un capolavoro sinfonico in cui la natura diventa la sua stessa orchestra. Eirik raccoglie i suoni naturali e ambientali con microfoni artigianali, li modifica e li riassembla in una composizione musicale. Il risultato è un concerto sensoriale tra fiordi e montagne, attraverso il tempo e lo spazio, che può cambiare anche il modo in cui percepiamo e ascoltiamo la vita stessa.
In questo lavoro dei Campos ho trovato richiami simili, resi ancora più espliciti da versi e descrizioni di una poeticità eterea. L’eco dei boschi, gli uccelli che migrano, i campi che cambiano colore e il sole che si avvicina.
“Subiamo il fascino di diverse influenze e diversi stimoli, che appartengono ad arti anche differenti dalla musica” mi ha confidato Simone, “dunque questo parallelismo non può che farci piacere. Anzi, mi ripeti il nome dell’artista?”
“Quante vite pensi di avere ancora?” ci domandano poi i Campos in Ruggine, altra traccia di Latlong.
Ma è una domanda dalla quale sono assenti le mille malinconie del rimpianto. Perché la risposta è una sola, esattamente come una sola è la vita che abbiamo da vivere. Senza lasciare “il tempo alla ruggine di mangiarti ancora” (Ruggine): il che significa anche viverla senza “pensarci un attimo” (Lume). Proprio in Lume, il carillon iniziale rimanda a quei sogni infantili che ci proiettavano con magia nel futuro, un futuro in cui spesso si reiterano ancora gli stessi sogni.
“Voglio la vita che non ho vissuto / Voglio la noia che non ho provato / Voglio le colpe che non ho scontato / Voglio il dolore che mi è mancato”: questa lista di voglie la troviamo invece in Dammi un cuore, canzone le cui battute iniziali suggeriscono proprio un assemblaggio, quasi come se il pezzo stesso volesse letteralmente costruirne uno, di cuore.
“Esatto, proprio così!” racconta Simone, “Sicuramente il protagonista di Dammi un cuore è un uomo che, pian piano, va costruendosi. Fino ad arrivare a quest’organo che pulsa in tutti noi. E fino ad arrivare anche al paradosso del rimpianto. Il rimpianto è qui un paradosso, perché solitamente si rimpiangono le cose belle, mentre nel pezzo c’è voglia di vita a 360 gradi. Una voglia di lasciarsi andare anche al lato più negativo della vita stessa, abbracciandone le contraddizioni”
E proprio il cuore, l’amore, è un altro tema preponderante in “Latlong”
“Dove finisce l’orizzonte inizi tu, dove finisce l’orizzonte resta il blu” (Blu) e “Non c’era bisogno di morire per andare in paradiso, per te che eri già cielo” (Paradiso) sono due versi che sembrano sporgersi proprio verso il cielo, in una sorta di abbandono a ciò che non si conoscerà mai per intero.
“Paradiso cela però in sé” puntualizza Simone, “anche un’immagine che avevamo bene in mente quando mettevamo insieme il pezzo. Abbiamo ipotizzato di intervistare qualcuno in paradiso per farci raccontare le meraviglie di quel luogo/non luogo. E alla fine lui ci dice che la vita terrena era molto più bella. Ma non nel senso banale di mille frasi fatte, come nel tanto ripetuto cliché abbiamo già il paradiso qui e non ce ne accorgiamo. La cosa va piuttosto intesa nel senso profondo di rendersi finalmente conto di come l’ambiente che ci circonda, e la natura che ne è parte integrante, mostri in sé una bellezza eterea che è giusto valorizzare e conoscere davvero, prima di bramare a qualcos’altro. Si tratta di accorgersi della bellezza che ci circonda, fondamentalmente: nella natura, come nelle persone. Amare è anche questo”
Latlong poi, già nel titolo, riassume in sé latitudine e longitudine. Quasi volesse fornirci le coordinate di questa bellezza, della libertà che tale bellezza ci fornisce. Una libertà ariosa che trasuda dai testi che abbiamo appena sbirciato, ma anche dalle musiche, così libere di assemblarsi in sound diversi e omogenei al contempo.
“La storia del titolo è molto casuale, ma alla fine anche molto efficace!” spiega Simone, “Senza dubbio c’è l’accenno alle coordinate geografiche come tracciati di un percorso di vita, vissuta in questo caso dai personaggi delle canzoni. Ma prima di tutto c’è il fatto che quando noi etichettiamo le canzoni, i provini e le bozze, diamo dei nomi casuali ai file. Alla fine, ci siamo ritrovati a decidere il titolo. Così questo nome è tornato fuori come quello più giusto ed azzeccato per battezzare il nostro lavoro”
“Che effetto fa l’aria sulla pelle?” Ascoltate Latlong, poi provate a rispondere.
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, ho spaziato nell'incredibile mondo del lavoro precario per alcuni anni: da commessa di libreria a maestra elementare, passando per il magico impiego di segretaria presso un'agenzia di voli in parapendio (sport che ho pure praticato, fino alla rottura del crociato). Ora scrivo a tempo pieno, ma anche a tempo perso.