“Le cose che ho” di Jesse the Faccio: imparare a fare i conti con se stessi
Le cose che ho, uscito il 26 novembre 2021 per Dischi Sotterranei, è il terzo lavoro del cantautore padovano Jesse the Faccio. La nota con cui, il 6 ottobre, l’artista ha accompagnato l’annuncio dell’ep sul suo profilo Instagram spiega perfettamente la complessità di un progetto che in quattro brani – Credo mi vedi, Che resta, Cose che ho, Come posso (collo) – racconta le difficoltà di un anno, il 2020, che ha modificato profondamente le nostre vite, obbligandoci a fare i conti con noi stessi e con la nostra solitudine.
Le cose che ho viene, infatti, presentato come un tentativo di tradurre in musica una sensazione di abbandono, che, ascoltando l’album, tutti ci rendiamo conto di aver provato, almeno una volta, negli ultimi due anni. «Non trovo più una forma per me» e «mi sento solo», canta Jesse nel terzo brano dell’ep, Cose che ho: quante volte c’è capitato di pensarlo, quante volte abbiamo provato ad evitare questi pensieri. Ebbene, Le cose che ho, in diciassette minuti, questi pensieri ce li sbatte tutti in faccia, facendoci rivivere quel turbinio di emozioni, ancora difficilmente definibili, che ci hanno accompagnati nei difficili mesi del 2020 e che, ancora, sembrano non averci completamente abbandonati.
Già dal primo ascolto, l’ep di Jesse the Faccio si presenta come un breve resoconto di un lungo viaggio dentro sé stessi.
Se, infatti, mi chiedessero di descrivere questo album in una sola parola, userei il termine “introspettivo”. Tale introspezione emerge non solo attraverso la perfetta alchimia tra parole e musica ma, anche, attraverso i videoclip che hanno accompagnato l’uscita dei quattro brani; tutti ambientati tra le mura domestiche, quelle stesse mura che siamo stati obbligati a riscoprire e che per molti di noi sono diventate una sorta di prigione.
Ciascun video si sviluppa in una stanza: il bagno (Credo mi vedi), la cucina (Che resta), il salotto (Cose che ho), la camera da letto (Come posso (collo)), per poi giungere, finalmente, a una sorta di tentativo di evasione nella parte finale dell’ultimo video, che, visti i lasciti in ognuno di noi di quello che abbiamo vissuto, ci porta a un interrogativo fondamentale: si può approdare a una liberazione totale o, almeno per ora, ci si deve accontentare della parvenza di questa?
Incapace di dare una risposta, ho incontrato Jesse the Faccio, per comprendere e analizzare meglio un progetto così intimo come “Le cose che ho”.
Ciao Jesse. Quest’album nasce da un momento non proprio facile della tua vita. Adesso che il disco è uscito come stai?
In verità sto meglio. Vedere uscire il disco, prima singolo per singolo, e poi nella sua compiutezza, è stata una grandissima liberazione. È stato effettivamente come chiudere un capitolo per iniziarne uno nuovo. Lavorare sul disco, passo dopo passo, mi ha dato molta serenità e mi ha permesso di superare un momento difficile come quello del lockdown.
La scrittura è il mezzo per eccellenza per raccontarsi. Tu scrivi, quindi lo sai molto bene. Però, se da un lato scrivere può servire da catarsi, dall’altro lato, può, al contrario, fungere da cassa di risonanza per determinate emozioni. A me sembra che nel tuo ep questi lati della scrittura emergano entrambi e che riescano a trovare anche un buon equilibrio. Tu che ne pensi a riguardo? Qual è stato il tuo rapporto con la scrittura di questo album?
Sono d’accordo con te. Questo è un disco che ho scritto in una settimana. È stato tutto molto diretto. È il primo lavoro che faccio al contrario, partendo dalla musica per arrivare ai testi. Di solito, nei miei lavori, musica e testi vanno a braccetto o, comunque, inizio dalle parti testuali, però, quando è iniziato il primo lockdown, ho avuto un grandissimo blocco nella scrittura, che è andato avanti fino a novembre 2020.
Dunque, ho lavorato prima su tutta la parte musicale del lavoro e, non appena sono stato un po’ meglio e mi sono sbloccato, ho iniziato a buttare giù, attraverso la scrittura, tutta la depressione e la solitudine di quel periodo. Infatti, alla fine del processo, il disco l’ho revisionato molto poco perché ero abbastanza sicuro di quello che volevo dire e del modo in cui avrei voluto dirlo.
Le canzoni dell’ep sembrano un po’ quattro capitoli di un libro, nel senso che c’è qualcosa, tra di loro, che sembra connetterle in maniera molto intima, sia a livello emotivo che a livello sonoro. Alla base di questo c’è una scelta pregressa o è un qualcosa che è venuto da sé nel processo di scrittura?
Per quanto riguarda la musica è stata una conseguenza delle limitazioni che avevamo: io ero a casa e avevo soltanto una chitarra classica. Ho iniziato a lavorare facendomi mandare dei beat e utilizzando, dunque, solo quei beat e la chitarra. L’uso costante di questa combinazione nei brani dava già, di per sé, al progetto, l’idea di unità. Dopodiché, nella produzione abbiamo deciso di creare dei collegamenti tra le varie canzoni: nell’intro della prima canzone ci sono i cori dell’ultimo pezzo, mentre, nella seconda canzone c’è la chitarra dell’intro del terzo pezzo.
Per quanto riguarda i testi, c’è l’idea che si possa leggere l’ep dall’inizio alla fine, proprio come un libro, dove ci sono quattro capitoli in cui tutto è collegato: tu li leggi uno per uno e arrivi alla fine sentendoti pienamente soddisfatto di quello che hai letto.
Le cose che ho è un ep in cui vi è una grande sperimentazione a livello di sonorità, che tu ti porti dietro da sempre. Quali sono i modelli a cui ti sei ispirato stavolta e cosa cambia rispetto ai tuoi progetti precedenti?
La prima novità rispetto a quello che ho fatto in passato sta, appunto, nella scelta di partire dalla musica nella realizzazione dei brani. Per ogni pezzo mi sono ispirato a brani e artisti a cui ero molto legato, ma che non ascoltavo da molto tempo e che il lockdown mi ha fatto rispolverare: per Credo mi vedi mi sono rifatto ad Anima latina di Battisti, in Che resta ho preso molta ispirazione dal lo-fi di Lil Peep.
Il terzo pezzo, Cose che ho, è ispirato al lavoro di Alex G, che è uno dei miei artisti preferiti in assoluto; mentre l’ultimo pezzo, Come posso (collo), fa riferimento a uno dei miei dischi preferiti, In Rainbows dei Radiohead. Utilizzare tutte queste cose, che rappresentavano la mia comfort zone, in un periodo in cui stavo molto male, come quello del primo lockdown, è stato sicuramente ciò che più mi ha aiutato e che ha segnato il principale cambiamento rispetto ai mei lavori precedenti.
Tu hai dato grande importanza anche ai videoclip che rappresentano ogni singolo brano, tutti ambientati in una determinata stanza di un appartamento. In questi hai messo in scena a tutti gli effetti quella volontà di mettersi a nudo, che traspare già dall’ascolto dei pezzi, per poi mostrare, alla fine, una sorta di esigenza di rivestirsi per affrontare il mondo all’esterno. Infatti, nel videoclip dell’ultima canzone, Come posso (collo) ci si proietta fuori da quelle mura domestiche in cui siamo stati costretti a vivere per diverso tempo. Come si pone questa scelta in relazione all’intero progetto dell’album?
L’idea di partenza dei video era quella di rappresentare una casa come luogo simbolo di quella solitudine che tutti ci siamo ritrovati a vivere e che, per me, è stata particolarmente difficile da affrontare.
L’ultimo brano, che è molto lungo rispetto ai miei standard, inizia con una ripetizione dello stesso giro fino a un’apertura liberatoria, quindi, anche nel videoclip ho cercato di giocare su questa cosa. Non ho trovato la libertà totale, non so neanche se si possa trovare, ma è comunque un tentativo, un passo molto importante rispetto al rimanere chiusi in casa: mi sono messo a nudo e poi mi sono rivestito per prendere di petto la vita, perché, per fortuna, fuori c’è anche altro, che va oltre ciò che abbiamo vissuto.
Il disco è uscito in un periodo in cui sembra si possa tornare a far musica live, soprattutto nei club più piccoli. Cos’hai in programma da questo punto di vista?
Data l’instabilità della situazione abbiamo in programma ancora pochi live. Per ora posso dirti che il quindici dicembre sarò a Trento. Poi a gennaio sarò a Milano e a febbraio a Bologna. Dopo si vedrà.
Chiara Montesano
Classe 1997. Ho una laurea in Italianistica ma provo a scrivere di musica mentre sogno la sala stampa di Sanremo.