Che ne facciamo del tempo che passa? Come ci relazioniamo con il disagio? Dove ci porteranno questi se e questi ma? Enrico Lanza, in arte Mapuche, se lo chiede spesso durante le 9 densissime tracce che compongono il suo ultimo lavoro “Non chiamarli Mostri”, uscito il 4 marzo scorso per Viceversa Records. Un disco tutt’altro che cupo e che, anzi, rivendica il diritto alla sofferenza e reclama la possibilità di mostrare – liberamente – la parte scura della luna.
Il percorso dublinese del protagonista dei brani è scandito da quesiti ch’egli usa come punto di partenza per navigare temi esistenzialisti e per orientarsi su bivi cruciali ma che non cercano necessariamente una risposta; piuttosto è un lasciar fluire i pensieri più sinistri nel tentativo di esorcizzarli, un esercizio di autenticità (almeno) verso se stessi, per difendersi da una società fatta apparentemente solo di good vibes ma che cela un disagio generazionale più profondo, insinuandosi in tutte le fratture personali degli individui.
Per conoscere veramente l’esito del viaggio introspettivo di Mapuche, “Non chiamarli mostri” va ascoltato dall’inizio alla fine, tutto d’un fiato. Va preso per mano come un bambino che sta imparando a camminare e ha paura dei mostri di un qualche buio estraniante.
Ciao Enrico, come stai? Come stanno i tuoi mostri?
Bene, ci frequentiamo non più di tanto adesso. Ad ogni modo penso che i mostri ce li abbiamo tutti e ovviamente vengono fuori nei momenti di crisi, in quelle situazioni ci lasciamo trascinare da pensieri, ma appartengono di fatto alla vita di tutti. Sta a noi dargli meno importanza: quelli veri sono fuori!
Nel disco affronti temi molto complessi come il passare del tempo, l’incapacità di adattarsi ad un certo modo di vivere la vita e fai costanti digressioni sul tuo vissuto: queste canzoni sembrano pagine di un diario, metterle in musica è stato terapeutico o ti senti ancora “Masso”?
Penso di aver trovato un equilibrio, ammesso che questo voglia dire qualcosa!
Però ci tengo a fare una precisazione: le storie sono in parte autobiografiche, in parte mi sono lasciato influenzare da certe visioni e da certi particolari; ho voluto dare importanza non tanto ad un’esperienza biografica quanto ad una determinata gradazione.
A volte mi ponevo, nei confronti delle situazioni, pensando ai se e ai ma (cosa sarebbe successo se avessi fatto così). Ho quindi voluto esplorare le varie possibilità per capire dove sarei potuto andare a sbattere.
Ma non cercavo risposte, più che altro cercavo domande. Soprattutto quelle che a volte tendiamo ad ignorare per evitare di farci del male.
Perché Masso? Quando ci succedono le cose, a volte sembra difficile capire (e accettare ndr) che siamo una piccola parte del tutto, perciò la riflessione dietro al significato di Masso è quella di rassegnarsi alla vita di tutti i giorni e alla quotidianità (in maniera positiva e negativa). Se ti poni delle domande, vuol dire che stai provando a lavorare sul lato qualitativo delle cose. In ultimo, le domande non servono sempre ad autodistruggerci. Anzi.
Alcuni pezzi si chiudono con lunghe parti strumentali, che assomigliano a lamenti e grida malinconiche: che significato gli dai?
Io le vedo come una sorta di grido liberatorio, quel flusso di coscienza che esplode e non si riesce più a contenere e viene fuori con tutta la sua collera. Il climax risiede dunque nella parte strumentale (in riferimento ai brani Lucertola ed Erlebnis).
In “Cosa nasconde la mia mente” canti “Un lucido pensiero mi tiene lontano dalle luci accecanti, dal calcolo infallibile, la possibilità di assomigliare agli altri”. Ci puoi spiegare qual è questo lucido pensiero? Assomigliare agli altri fa paura?
Il protagonista della canzone vive nella sua dimensione protettiva, lontano dal mondo che ha rifiutato, il lucido pensiero – che è soggettivo – lo aiuta a tenersi alla larga dalla possibilità di omologarsi agli altri. “Assomigliare agli altri” significa fare finta che vada sempre tutto bene, allontanando la sofferenza come fosse un tabù. Vista da una prospettiva diversa, si può dire che il dolore potrebbe essere una forma di rivalsa, in fondo c’è un atteggiamento vanitoso nella sofferenza.
Ne “Il male oscuro” dici “Se solo lo specchio riuscisse a rendere reale, quella parte invisibile che trama di nascosto, che avvelena ricordi, pensieri, intenzioni e si nutre di polvere”: sembra dedicata ad una sorta di io razionale. È così?
Lo specchio è una confessione o un grido d’aiuto per capire cosa c’è che non va, di che cosa è fatta quella polvere. Ma lo chiede alla persona sbagliata!
Uno dei miei pezzi preferiti è “Lucertola”: non ci capisco niente e per questo la amo, un po’ teatro dell’assurdo, un po’ Mario Schifano. Chi è la lucertola? Cosa rappresenta?
Non voglio svelare troppo su Lucertola, perché vorrei che chi ascoltasse il disco trovasse una sua lettura delle cose. Ad ogni modo, continua il discorso de Il Male Oscuro, ma con una luce un po’ più ambigua: ne Il Male Oscuro, il protagonista delle canzoni è in un momento di sofferenza, disarmato; mentre Lucertola corrisponde ad un desiderio di fare chiarezza, anche a costo di farsi del male. Inseguire qualcosa che non si sa se c’è e se rappresenta una via d’uscita.
Infine, l’introspezione nuda e cruda, i pensieri obliqui e le parole d’infelicità: quanto ha influito la pandemia nel partorire questi testi?
Il grosso era già pronto prima che iniziasse tutto; ad eccezione di Cosa nasconde la mia mente e Lucertola che ho completato durante la pandemia. Comunque credo che la situazione di solitudine estrema abbia contribuito nel far venire fuori qualcosa di produttivo dal punto di vista lirico.
In generale, trovo che la solitudine sia un ottimo modo per conoscersi e non è sempre negativa. Ma preferisco fare un’ulteriore riflessione su questo disco che è stato definito cupo: a volte quando si va da uno specialista, devi necessariamente parlare, pertanto aprirsi è un atteggiamento positivo. Se invece non parli, andare dallo specialista non ti serve a niente: quindi perché censurare (e censurarsi), in tutti gli ambiti, le forme di disagio e sofferenza?