In questi giorni in cui si avvicinava dicembre ed è arrivato il classico periodo dell’anno in cui si fanno bilanci e somme, ho riflettuto molto sulla mia generazione.
I millennials, o forse più precisamente su quelli che sono nati nei primi anni ’90. Non siamo nati con il cellulare in mano ma abbiamo vissuto un prima e un dopo. Le cassette quando già stavano passando di moda, i cd che si graffiavano e in vinili che tornano di moda. Abbiamo sperimentato il costo sociale e umano di una classe politica che ci urlava in faccia che con la cultura non si mangia ma noi lo sapevamo bene che l’arma più potente per avviare una rivoluzione dal basso si chiama formazione, studio, conoscenza.
Scrivo queste considerazioni perché, quando ho ascoltato il nuovo disco di Marco Castello, “Pezzi della sera”, ho toccato con mano quello studio di cui parlavo poc’anzi, quell’attenzione, quella meticolosità che sono propri di chi insegue gelosamente una passione, nella ferma convinzione che il sacrificio e la dedizione paghino.
Sono dunque fiera di appartenere ad una generazione che si impegna, che sa produrre musica di qualità facendosi strada da sola; che combatte con un sonoro sorriso, con parole che ora si fanno dissacranti, ora docili come carezze per sfidare l’ascoltatore pigro che si aggrappa disperatamente al linguaggio letterale, perché cogliere i significati latenti richiede uno sforzo che non vuole o nel peggiore dei casi non può permettersi.
Il 17 Novembre, contro ogni rito scaramantico, è uscito in digitale (era disponibile già dal 19 settembre ma solo in vinile su say-yes.eu) il secondo lavoro di Marco Castello, ragazzo classe 1993 che vive a Siracusa e che dopo aver conseguito a Milano una laurea in tromba Jazz, aver fatto un tour in Europa e in America Latina, ha fondato un’etichetta indipendente e l’ha chiamata “Megghiu Suli”. Genio.
Lo abbiamo intervistato.
Ascoltando il tuo disco, mi è subito apparso chiaro che molte delle parole che utilizzi mi fanno in qualche modo sentire a casa. Parto proprio dal linguaggio per chiederti se utilizzando espressioni impregnate di sicilianità temi di non essere compreso?
Onestamente no. Anche perché penso che la maggior parte delle canzoni che la gente ascolta, non veramente sono ascoltate.
Mi spiego meglio. Io per primo per tutta la mia vita ho ascoltato musica in inglese senza mai domandarmi cosa dicesse il testo, meno che proprio non andassi a cercare il significato. Detto ciò, sicuramente scrivere un testo che sia comprensibile è un valore aggiunto, ma io sono un musicista non sono un poeta. Quindi per me il testo è spesso semplicemente un mezzo che mi serve a cantare qualcosa.
Potrei fare canzoni che presentano lallazioni ed essere comunque soddisfatto. Proprio perché il mio fine è quello di fare una bella musica.
Poi penso che metterci parole anche poco comprensibili possa essere un po’ un quid in più; perché magari quando qualcuno non capisce qualcosa, quel qualcosa può trasformarsi in una pietra di inciampo, per tendere un po’ le antenne, per farsi domande. E quindi questo mi piace.
Infine, la la mia identità per me è fortissima e quindi per me scrivere canzoni è una maniera di esprimere ciò che dico normalmente anche mentre parlo nella mia lingua di tutti i giorni che è un italiano impregnato di dialetto e quindi scrivo canzoni in questo mondo.
Hai dichiarato di voler intitolare le canzoni traendo ispirazione dalla mitologia greca come, per esempio, in “Polifemo” ti chiedo però da cosa poi è derivato il titolo dell’album “Pezzi della Sera”?
All’inizio cercavo un fil rouge del disco. Spesso, anzi nel mio caso sempre, ci sono tante canzoni che non hanno niente a che fare tra loro ma che poi vanno a finire in un album. E quindi mi trovo a dover cercare dei link che possono renderle un po’ parte di un lavoro unico.
A un certo punto siccome c’è un pezzo che si intitola “Dracme”, che è anche il primo singolo che è uscito, e Siracusa ha una stupenda rappresentazione in una bellissima monetina, una dracma anzi un “Decadramma siracusano”, proprio questa ha ispirato la copertina del singolo.
All’inizio la copertina del disco doveva essere quella che poi è diventata la copertina del singolo. Mi piaceva così tanto l’ha fatta Alfredo Maddaluno. Mi piaceva così tanto che potevo farla diventare proprio la copertina dell’album.
Poi però mi sono reso conto che utilizzandola come cover, mi sarei andato ad infilare in una retorica grecizzante che in primis non centrava praticamente nulla con la maggior parte delle canzoni e secondariamente non amo molto questa retorica del cullarsi su le glorie passate.
Il fatto di giustificare qualsiasi squallore contemporaneo perché noi siamo stati la capitale della Magna Grecia e abbiamo avuto Archimede e abbiamo avuto questo passato così glorioso, non mi piace.
Quando moltissimi personaggi parlano di Siracusa elogiando ancora queste glorie di cui non hanno nessunissimo merito, a me un po’ viene da storcere il naso. Si tende a dire che noi siamo la Grecia d’Occidente un po’ come se qualcuno a Roma sognasse di dire che noi siamo l’Impero Romano quindi questa cosa non mi piaceva.
Allora poi ho optato per quello che era in realtà l’idea iniziale del titolo dell’album ovvero “Pezzi della Sera”.
Durante le registrazioni, tornando nell’appartamento che avevamo in affitto a Berlino riascoltavamo le session che avevamo fatto durante il giorno. Ci rendevamo conto che quelle che ci piacevano di più erano sempre le tracce che registravamo a fine giornata, la sera.
Inoltre, per me “pezzi” vuol dire tante cose. Qui i pezzi sono le colazioni: quando torni a casa la notte, vai a prenderti un cornetto, “un pezzo”.
Nella rosticceria siracusana si chiamano pezzi: ci sono pezzi dolci, pezzi salati. Quindi è una cosa che costella ancora un po’ questa mia voglia di identificarmi nella località. In più il “pezzo” è anche la pallina di cocaina. Tanto che c’è un brano che parla proprio di questo, cioè di quello che succede nella vita notturna siracusana.
Sei un ragazzo in controtendenza perché sei partito dalla tua terra per formarti per studiare e poi sei tornato per restare. Una domanda che ti faccio è: che prospettive hai e cosa significa essere un ragazzo che fa musica al sud?
Non so se sono in controtendenza, sicuramente ho avuto fortuna. Perché sono andato a studiare a Milano, mi sono laureato lì, poi a un certo punto ero totalmente demotivato e disperato perché non avevo idea di come trasformare questa laurea in qualcosa che potesse farmi sentire non indebito coi miei genitori diciamo. E quindi mi sono detto piuttosto che stare qui cercarmi un lavoro a Milano, torno giù lavoro giù e tutto quello che guadagno me lo tengo e provo investirlo.
E tornando giù in realtà ho avuto un colpo di fortuna perché ho conosciuto Erlend Øye dei Kings of Convenience e abbiamo cominciato a suonare insieme. Nel giro di sei mesi è cambiato tutto. Siamo partiti in Sud America, abbiamo fatto tour stupendi e soprattutto ho avuto l’opportunità di poter registrare le canzoni che avevo cominciato a scrivere lo stesso anno. Quindi il mio percorso è stato in controtendenza. Nel senso che normalmente ci si allontana dal sud per trovare opportunità, io invece le ho trovate ritornando.
“Narrazione” è una presa in giro contro l’attivismo di oggi che è quasi diventato una moda. Che cosa significa partecipare secondo te?
Per me partecipare significa avere la libertà di poter anche dissentire. Mentre spesso quello che mi sembra è che ci sono tantissime prese di posizione e partecipazioni in questo, che per carità, io reputo sacrosante. Anzi per certi aspetti sono anche super felice del fatto che certe cose diventano una sorta di tendenza, perché penso che alla fine sia anche questo un modo di far passare dei messaggi.
La mia preoccupazione però è che questi messaggi non vengano accettati e assorbiti perché passati al vaglio di una coscienza critica, ma solo perché vince la moda. E questo, secondo me, è pericolosissimo perché, se a un certo punto diventerà alla moda qualcos’altro, alla stessa maniera, si potrebbe seguire qualsiasi tendenza sbagliata, se vogliamo.
Per cui in realtà a me preoccupa il fatto che alla fine mi sembra sempre più spesso che le battaglie diventino sempre di più una sorta di etichetta che ci si mette addosso, quasi a voler dire io appartengo alla categoria di persone che si schierano in questa cosa ma semplicemente perché è diventato urgenza a schierarsi o comunque diventato urgente darsi un’etichetta.
Che poi è lo stesso motivo per cui c’è la tendenza a volersi identificare col proprio segno zodiacale, a voler fare la scheda a tutte le persone che si incontrano. Come a dover soddisfare un bisogno di sentirsi necessariamente parte di qualcosa piuttosto che preoccuparsi di avere i mezzi per poter dire questa cosa mi sembra giusta, questa cosa mi sembra sbagliata.
E poi diciamo che per me tantissimi dei problemi contemporanei in realtà sono spesso e volentieri strumentalizzati per nascondere quella che in realtà è sempre, da sempre la problematica più grande di tutte a mio avviso e cioè la disparità economica assurda che c’è tra le persone.
Nei tuoi testi giochi abilmente stando su una linea di demarcazione sottile tra il sacro e il dissacrante. Allora ti chiedo: che dimensione ha la tua musica?
Ma sicuramente più dissacrante direi. Nel senso che sacro è una cosa che ognuno, secondo me, si ricerca un po’ dove vuole.
Mi piace però dissacrare perché penso che troppo spesso questo sacro sia concentrato in cose che per me non lo sono affatto. Quindi mi piace prendermi gioco di queste dinamiche. Mi piace far riflettere, mi piace scandalizzare.
Considera tutti gli adulti di questa città che mi hanno visto crescere che poi ascoltano questi testi coi quali ho urtato la loro sensibilità.
Loro ovviamente non hanno idea dei sottotesti, di cosa si dica nella musica universale del mondo. Quindi appena io ci metto dentro parole un po’ più scurrili, diventa automaticamente qualcosa di assurdo perché comunque Siracusa è una città molto piccola e non ci sono livelli di giudizio. Tutto quello che appare o può non essere serio, non è degno di nota.
A me tendenzialmente le cose che interessano sono poche. Per me una bella musica deve farti in qualche modo viaggiare, divertire. E quella se vogliamo è un po’ per me una sacralità.
Poi dal punto di vista del testo, che ripeto, per me è una cosa secondaria a quel punto cerco di farlo in maniera che sia non banale e quindi preferisco di gran lunga dire oscenità che provochino una reazione piuttosto che proferire romanticherie banali e pulite sentite miliardi e miliardi di volte.
Di recente ho intervistato bianco Alberto Bianco che ha dichiarato che sei uno dei pochi artisti che riesce a sorprenderlo. Ti rigiro la domanda: a livello di musica e in generale cioè cosa ascolti e cosa ti piace?
Quello che io cerco è esattamente ciò che cerco di suscitare quando scrivo. Per cui, soprattutto quando ascolto cose in inglese faccio poco caso ai testi anche perché spesso e volentieri li trovo banali e mi concentro sulla musica.
Forse perché sono abituato a Battisti, Carella e ai loro parolieri che erano geniali. In Italia trovo fantastica Joah Thiele, dipende un po’ dai periodi. Poi alla fine ricado sempre nei miei gusti classici che sono quelli per l’estetica degli anni ‘70 in Brasile.
In una canzone parli di un sessantenne che si perde “Alla pizzuta”. Ti identifichi in quel sessantenne?
Certo. C’è un quartiere periferico in cui mi perdo, perché non lo frequento mai. Mi ricordo già da quando ero piccolo che ci andavo e finora non è migliorata la situazione. Cioè non ho imparato di questo quartiere ancora niente.
Sessantasei anni in realtà è l’età di mio padre quando ho scritto il pezzo e quindi un po’ è stato un incrocio tra l’immedesimarmi in me stesso alla sua età. Lui, in realtà non so se si perde lì, però nel brano volevo esprimere un intervallo di tempo che fosse più di trent’anni, ma metricamente 66 ci stava meglio.
C’è un altro brano in cui dici “Un cieco mi ha predetto il futuro e mi ha detto: ama ciò che ti rende insicuro”. Puoi approfondire questo concetto?
Quella è un’altra citazione che proviene dalla mitologia. In questo caso, però il cieco è visto come un barbone, un mendicante. Per me “amare ciò che ti rende insicuro” è proprio ciò che mi permetti di gestire la mia insicurezza, che è poi ciò che spinge sempre più a migliorare.
Io vivo un po’ con questa morale da manga giapponese, se vogliamo. Cioè per me l’idea di diventare qualcosa di bellissimo è quello che mi fa andare avanti. In questo senso l’insicurezza diventa proprio uno stimolo a migliorarsi. Per questo motivo penso che amare l’insicurezza voglia dire amare quel qualcosa che ti rende insicuro e può significare anche amare un po’ se stessi.
In un brano, a tua zia che ti ha chiesto se andrai a Sanremo hai risposto “Chissà”. È una provocazione?
In quel caso mi era stato davvero proposto. Quindi sempre sulla scia di essere un po’ dissacrante e un po’ provocatorio l’avevo scritta volutamente. Poi diciamo che si è rivelata l’ennesima bolla che è scoppiata. E questo è anche uno dei motivi per cui poi ho scelto di buttarmi sulla sull’indipendenza discografica e fare un po’ tutto da solo
Sarebbe stupido dire che non mi farebbe piacere. Nel senso che in Italia per quanto sia triste spesso e volentieri è comunque la vetrina che ti dà la massima esposizione. Mi dà quasi più fastidio il fatto che mi piacerebbe nonostante spesso e volentieri mi sembra orrenda o meglio mi è sembrato orrendo da quando ho coscienza critica.
L’ho sempre guardato malissimo ma effettivamente dal periodo Amadeus è stato come se a un certo punto ci fosse un po’ una tendenza a dire: OK esiste un’altra scena in Italia che non è fatta soltanto da Francesco Renga. Quindi sono venuti fuori nomi un po’ più freschi, un po’ più indie, se vogliamo.
Immaginare che Colapesce andasse a Sanremo fino al 2018 era una cosa assurda perché era totalmente un’altra cosa rispetto a quello che era Sanremo.
Anche se poi nell’ultima edizione ho ritrovato la stessa sensazione che provavo quando lo guardavo prima. Il punto è che al centro non c’è la musica: è una piattaforma per fare spettacolo.
Ci andrei solo per il gusto di fare qualche cavolata in mondovisione tanto per prendere in giro tutti. A me non me frega nulla della gara, io sono un orgogliosissimo perdente se vinco mi sento a disagio e penso che la competizione e le gare centrino poco con la musica.
Hai davvero fondato un’etichetta che si chiama “Megghiu suli”? E cosa significa fare un disco indipendente.
In realtà non è molto diverso da quello che ho sempre fatto prima. Alla fine ho sempre curato io praticamente ogni aspetto del disco precedente: dalla musica alle locandine ai canvas, fino alle grafiche che c’erano negli schermi durante i live.
A un certo punto ho capito che non mi andava aspettare e rincorrere l’impegno delle etichette che hanno tantissimi artisti molto più grossi, per cui tu non potrai mai essere una priorità. Mentre io sono la mia unica priorità.
Così fatto due conti sono messo i soldi da parte per registrare il disco. All’inizio non ero sicurissimo di fare questa scelta e poi una volta che ho cominciato a metterci mano ho capito tutta una serie di dinamiche per cui non mi piaceva come erano state gestite le cose del disco precedente. A quel punto il disco era pronto, praticamente finito, e siccome quello che mi mancava non mi era garantito neanche da un’etichetta, tanto valeva perseguire questa strada da solo. E devo dire che sta andando sensibilmente meglio di come fosse andato il primo e questo naturalmente mi fa piacere.
Le prossime date del tour di Marco Castello
06/12 – Monk – Roma
07/12 – Duel Club – Napoli
22/12 – Zō Centro Culture Contemporanee – Catania
I biglietti del tour di Marco Castello sono acquistabili su dice.com