Matteo Costanzo, uno scorpione sinuoso e pungente nel suo “Deserto”
C’era una volta un mondo normale, una Roma fatta di stornelli scritti in cameretta e suonati nei locali. È la Roma di stornellari da serate live, jam session su palcoscenici di musicisti in festa. A Roma puoi scegliere di andare ad ascoltare un concerto di un cantante che ami, oppure concederti il lusso di farti stupire da uno sconosciuto. Quella Roma freme per tornare sinfonica e notturna. In quella Roma io sentii un giorno suonare Matteo Costanzo, nel caleidoscopio di altri musicisti, che inscenavano canzoni.
L’ho poi riascoltato, senza saperlo perché Matteo oltre ad essere musicista è anche produttore: ha infatti prodotto brani come “Killer” di Wrongonyou e i dischi “Pianeti” e “Peter Pan” di Ultimo. A molti musicisti mancano i palchi non solo per esprimersi ma anche per confrontarsi e per supportarsi, per mescolarsi e per darsi forza, per questo ho lasciato che fossero alcuni suoi colleghi musicisti a parlarci di lui e del suo primo disco “Deserto”.
«Credo che Matteo Costanzo sia il musicista più versatile che io abbia mai conosciuto, e soprattutto è in grado di essere istintivo e celebrale restando in un equilibrio raro. Ha fatto uscire un disco coraggioso, fuori dagli schermi e dalle tendenze, si capisce subito che lo ha scritto per esprimersi, e per questo lo considero un disco puro» Matteo Alieno
Un bellissimo viaggio il nuovo disco di Matteo Costanzo, 10 tracce 10 passaggi sonori, un Deserto colmo di immaginari e livelli.
«Matteo Costanzo, scorpione di segno e di fatto, non ama la superficie e sente un innato bisogno di andare a fondo delle cose, per renderle più dense, a volte, o per sublimarle da solide a entità gassose. Ed è questa la densità con cui apre il suo lavoro, la title track Deserto. Un sound moderno ma che riecheggia le radici del crossover stile Linkin Park o Incubus, una riuscita contaminazione per narrare la lotta scorpionica contro i propri limiti, quella viscerale voglia di assorbire il tutto, nel bene e nel male.
I segni zodiacali e i pianeti piacciono molto all’autore e infatti è Mercurio che invoca nella seconda traccia, Nudi, in cui le chitarre elettriche ricordano quel pungiglione dalle linee rotonde e morbide, sempre pronto a sferrare la necessità dell’essenza, così come nella voce, naturale e senza orpelli. Ma quando due scorpioni si uniscono è lì che si crea la magia e questo accade in Senza Volto, con il featuring di Naive, scorpione anch’essa, e compagna di vita oltre che di traccia. Gli intrecci vocali dei primi versi, i timbri che si mischiano negli unisono proseguendo. Entrambe le voci sembrano fatte una per l’altra e Naive con un suono emozionante e animico dà una marcia in più alle chitarre acustiche e al violoncello che incorniciano questo brano che definirei “un dono agli uomini”.
L’intimità continua ad accompagnarci in Vita, con la voce densa di Matteo, forse il brano più lirico “vita, stringiti a me, rimani”.
Con Faccio come mi pare si apre un nuovo capitolo, dove, nascosta dall’apparente leggerezza e sfrontatezza del brano, Matteo sornione non smette però di dare la sua visione delle cose e delle dinamiche di questa società. Dopo queste sonorità rock con Eterno Matteo fa un mashup tra il cantautorato indie moderno, sia in certe sonorità che fraseggi, e il cantautorato della tradizione. Infatti la sua scorpionica necessità di melodia e armonia con i suoi echi battistiani, sorprende l’ascolto nelle aperture del ritornello, una bella dichiarazione di guarigione.
L’ultima terzina fatta da Semplice, Lei e Preghiera (che vede le tessiture zigrinate delle acustiche di Mario Romano) presenta un ulteriore livello sonoro scelto da Matteo, all’insegna del minimalismo e talvolta, dell’etereo. Un etereo sanguigno però, come in Preghiera, intimo e graffiante come il pianoforte e poi le chitarre acustiche in Lei, oppure nel flow e nel mood di Semplice. A chiudere il disco un’alternate version di Nessuno mi Sente, totalmente opposta all’originale. La voce piena e graffiata dà spazio al falsetto, in un’atmosfera con pennellate quasi industrial: una reinterpretazione ben riuscita. Un vero viaggio questo Deserto, un vero scorpione Matteo, un vero ascolto dai tanti strati per chi vi poggerà le orecchie» DAP .
Io invece il disco l’ho ascoltato e riascoltato e poi me lo sono fatta raccontare da lui.
Il tuo primo disco si chiama “Deserto”, di primo acchito rievoca qualcosa di arido, spoglio, ed invece il disco è pieno di colori, suoni, immagini, emozioni e sensazioni: è evocativo. In quale luogo ideale ti sentivi mentre creavi, e in quale vorresti si sentissero gli ascoltatori?
Ogni canzone ha un suo mondo a sé, luoghi precisi descritti nei testi: il deserto, lo spazio, il bosco, fino a posti più reali come la mia camera da letto.
Attualmente cosa è il tuo deserto e in cosa vedi un’oasi?
Ho sempre immaginato che gli ascoltatori ascoltassero questo viaggio in cuffia, sdraiati sul letto della propria camera, oppure durante un grande concerto.
Devo dire che, ora come ora, ciò in cui vedevo un “deserto” è stato ampiamente superato: il disco, infatti, parte da un “deserto” interiore, una solitudine, un dolore, che piano piano va svanendo andando avanti nelle canzoni. E quindi posso dire ad oggi di aver superato il mio deserto o comunque di averlo fatto mio alleato. L’oasi è e rimarrà sempre la musica, per me eterna fonte di ispirazione e di vita.
È un disco è “estremamente” suonato, c’è una bella alchimia tra la musica ed i testi: parlaci un po’ della genesi del disco.
È stato per me una scuola per conoscere me stesso e per perfezionare ancora di più il mio modo di arrangiare e produrre.
Quanto il suonare dal vivo ha influito su ciò che poi hai registrato o sulla composizione in generale?
Moltissimo, da sopra il palco impari a sentire cosa piace veramente alla gente, diventi sensibilissimo alle emozioni degli altri. E questo influenza moltissimo il modo di scrivere.