Dire Max Collini significa immediatamente pensare ad un’improvvisa e spontanea playlist mentale che spazia da Sensibile a Elena e i Nirvana, da Babbo Natale a Kappler con la consapevolezza di potersi perdere in delle storie che sono un viaggio necessario per chi, crescendo, non si accontenta delle favole.
La sua dizione e il suo ritmo narrativo inconfondibili, lo hanno reso in quindici anni, un punto di riferimento per chi nella musica cerca la forza di un’ideologia precisa e fonte di ispirazione per gruppi della scena contemporanea, come Lo Stato Sociale.
Definendosi il primo vero indie della storia della musica italiana, come lo ribadisce la maglia indossata durante il suo tour Max Collini legge l’indie, lo abbiamo incontrato nel suo camerino prima del concerto al Cap10100 di Torino lo scorso sabato 7 febbraio.
Una carriera che inizia dopo i 30: tre progetti che permettono di “posizionare” in maniera chiara Max Collini nel mondo della musica, ma anche tre progetti che segnano un’evoluzione nel tuo percorso. Ma come è cambiato – e se è cambiato – il modo di vivere la musica da parte tua?
Io non so se sia un’evoluzione, lo spero, ma non sono sicuro. Però è cambiato perché in questi quindici anni in cui ho cominciato a calcare palchi – dal 2003 fino ad oggi – è cambiata la scena, sono cambiate le persone, è cambiato il gusto del pubblico. Da quando ho iniziato negli anni zero, il pubblico della cosiddetta musica indipendente era una nicchia piuttosto piccola in cui se riempivi il Covo di Bologna ti dovevi sentire un po’ in colpa!
Oggi quella scena è diventata enorme e riempie i palazzetti con un’altra generazione di spettatori. Forse si è anche un po’ uniformata ad un genere musicale abbastanza poco sperimentale. In questo momento, a parte tutto quello che riguarda il rap, la trap, ecc., nelle canzoni più “tradizionali” c’è poca sperimentazione. Si assiste ad una sorta di egemonia culturale che riguarda Calcutta, Coez, i Cani ecc. che non è il mio campo di gioco.
Io sono uno che scrive principalmente storie, la maggior parte autobiografiche, e cambiando il mondo – ma cambiando anche io – credo che possa essere cambiato anche il mio linguaggio e il mio modo di affrontarlo. Certo, oggi c’è un problema all’origine: non esistono più gli Offlaga Disco Pax perché è morto Enrico Fontanelli e forse non racconteremmo le stesse storie se Enrico fosse ancora qui. Io poi alla fine ho cambiato alcune cose, anche perché non potevo fare diversamente. Il gruppo non c’era più e ho preso altre strade: con Spartiti, insieme a Jukka Reverberi, o anche da solo come in questo ultimo spettacolo o ne “Dagli Appendini alle Ande”.
Diciamo che ho scoperto di poter affrontare cose che non credevo, come ad esempio affrontare il pubblico da solo anche senza musica. C’è un pezzo di me che è venuto fuori per necessità…
Offlaga Disco Pax e Spartiti: due progetti al tempo stesso diversi, ma uniti da un’evoluzione necessaria. Hai mai sentito il peso del confronto tra i due progetti?
Io ho sentito il peso dello scioglimento degli Offlaga e della mancanza di Enrico, ma il peso della differenza no. Ho continuato una strada e ho trovato un musicista bravissimo che è anche un grandissimo amico come Jukka. Mi ha aiutato tantissimo in un momento difficile e abbiamo fatto tante cose belle assieme. Penso che ricominceremo a collaborare, finito il tour dei Giardini di Mirò. Penso che arriveremo tutti e due arricchiti da questi due anni in cui ci siamo separati e potrebbe essere che venga fuori un disco ancora diverso dai due precedenti.
Io mi riconosco molto nel lavoro di Jukka, ma abbiamo scelto fin dall’inizio che il suo lavoro, come musicista, non fosse una mera riproduzione degli Offlaga Disco Pax. Io faccio più fatica perché la mia voce è questa, il mio modo di scrivere è questo. Per Jukka, che è un musicista diverso da Enrico e Daniele, penso sia più semplice cercare un panorama sonoro diverso.
Oltre la tua voce e la tua persona, c’è un elemento che tiene insieme due progetti così distanti come gli Offlaga Disco Pax e Max Collini legge l’indie?
C’è un aspetto ironico e autoironico e anche la lettura della realtà che mi circonda! Non mi accontento di ascoltare le cose, voglio capire, mi ci voglio cimentare. Non potrei mai metter su una coverband perché non so cantare! (ride). Mi diverto ad affrontare questo decennio con lo spirito di Raf quando cantava “cosa resterà di questi anni 80”. Io mi chiedo cosa resterà di questi anni dieci, visto che il decennio è finito.
Esploro questo ambiente – che è diventato enorme e che vede un pubblico giovane e molto molto ampio- e tengo solo i testi privandoli di tutto quanto. Resta solo la parola e rimane la forza di chi li ha scritti. Alcuni dei testi che io recito credo che abbiamo molta forza e per assurdo ne hanno anche di più per il fatto che non c’è nient’altro che la forza del loro contenuto. Di alcuni sono proprio innamorato: altri magari funzionavano benissimo come canzoni e, forse, svuotate di tutto il resto rimane poco! Per me recitare i testi delle canzoni senza musica e arrangiamenti e con la mia dizione, rappresenta, appunto, un gioco retorico, un artificio!
In un’intervista dichiari: “Ora che c’è un pubblico potenzialmente infinito là fuori magari osare qualcosa di più ogni tanto non guasterebbe”. In un contesto musicale in cui quasi si rischia di andare in overdose di musica per la quantità di musica “sfornata”, quale credi sia la ricetta per emergere in termini di qualità?
Ti faccio un esempio: Calcutta era uno che faceva concerti in piccolissimi club per poche persone e oggi è un artista gigantesco. Secondo me perché fa qualcosa che ha a che fare con la verità. Lui è quella cosa li ed è intrinsecamente quella roba li. Il punto non è tanto se mi piaccia o meno (a me piace tantissimo), ma che arriva perché non è un clone e non è un tentativo di imitazione di qualcun altro. Io credo che se è arrivato così forte e in così poco tempo è perché ha qualcosa dentro che è arrivata agli altri. C’è una diversità tra la verità e la credibilità e il tentativo di esserlo!
Il consiglio che posso dare dal punto di vista del mio piccolissimo percorso è che non c’è una ricetta, un modo per emergere…non c’è nulla! Fai-quello-che-tu-ami-fare! Di solito funziona così: se tu ami molto quello che fai, in teoria, la credibilità ce l’hai. Se non trovi nessuno a cui piace, allora devi farti delle domande e forse quello che stai facendo, purtroppo, per mille motivi, non arriva.
De Andrè, a proposito di Sanremo affermava: “se fosse solo un fatto di corde vocali, la si potrebbe ancora considerare una competizione quasi sportiva. Nel mio caso dovrei andare ad esprimere i miei sentimenti o la tecnica con i quali io riesco ad esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione”. A differenza dello spessore di questa frase, sembra che oggi ci sia la fretta e la velocità di dover cantare emozioni che non siano tanto un punto di partenza introspettivo quanto piuttosto uno strumento per creare risonanza e condivisione da post facebook. Non pensi che si debba restituire all’arte la possibilità di concedersi del tempo per andare più a fondo?
Si, in teoria si ed è un ragionamento molto corretto. Il punto è che ogni artista concederà all’arte un po’ quello che gli pare. Forse, c’è solo più pressione dall’esterno. Nel caso specifico, nella musica pop c’è un’industria dietro, piccola o grande che sia. Non c’è soltanto l’artista in sé che si esprime quando ne ha necessità. C’è un mondo che lavora, che fa cose con scadenze, dischi da consegnare, contratti da rispettare. Tutte pressioni che ho avuto la possibilità di non vivere in quanto Artista indipendente VERO e che fa esattamente quello che gli pare! Ognuno si regolerà secondo la sua sensibilità.
A volte, purtroppo, escono anche dischi magari non riusciti perché la pressione esterna è più forte della propria capacità di lavorare con calma e convinzione sul proprio prodotto, sulla propria proposta e la propria arte. C’è gente che scrive compulsivamente e c’è gente che fa dischi ogni sette o otto anni, ma questo non vuol dire che sia migliore. Ad esempio, nel loro periodo storico, i Police hanno fatto cinque dischi in cinque anni e mi sembrano tutti dischi enormi.
Assistere ad un tuo concerto – parlo soprattutto di quelli con Spartiti – significa immergersi in un paio d’ore che hanno il sapore di una confidenza tra amici in cui ci si racconta e si racconta. Se un concerto di Max Collini avvenisse in uno stadio, cosa cambierebbe?
Ti racconterò quello che mi è successo: gli Offlaga hanno fatto un concerto in uno stadio nel 2009 a Livorno in occasione dell’Italia Wave. Abbiamo aperto ai Kraftwerk e agli Aphex Twin. Il momento più alto della nostra carriera! Lo abbiamo fatto davanti a più di… diecimila persone? Impianto spettacolare, suoni spettacolari, un trio d’archi: il risultato finale è che di quei diecimila, i due terzi non sapevano chi fossimo, ma io ho percepito che lavorando a quel livello di suono e di professionalità, anche un gruppo sconosciuto, se ha qualcosa da dire, arriva!
Non voglio essere presuntuoso, ma ho percepito quello che stavamo facendo nei quaranta minuti – otto brani di Bachelite credo – stava arrivando (grazie ovviamente ad una strumentazione e dei tecnici pazzeschi!). In qualche modo, quello che veniva percepito come gruppo “minimale” e, forse, fuori contesto in uno spazio del genere, in realtà è stata una performance che ricorderemo e racconteremo ai nostri nipoti.
Max Collini legge l’indie. Da tuo fan ho sentito la necessità di fermarmi un attimo e comprenderne le ragioni di un progetto apparentemente spiazzante. A chi come me ha reagito in questo modo cosa risponderesti?
Dopo quindici anni a fare le cose con una certa pretesa, di rigore, di serietà, pensavo di essermi meritato una ricreazione per fare qualcosa di divertente, scanzonato e leggero! È la cosa più pop che abbia mai fatto e mi sto divertendo molto. Certo, è una frazione della mia storia. Non farò questo per sempre. È un’idea che mi è venuta e ha funzionato e che interrompe un po’ e rende più facile anche fare delle cose. Ripeto, penso dopo anni, di poter fare una cosa più leggera senza dovermi giustificare.
Vuoi o non vuoi c’è aria di Sanremo. Con quale brano della tua carriera avresti partecipato?
Io credo che i brani degli Offlaga Disco Pax per Sanremo non siano molti se penso a quello che abbiamo fatto. L’unico un po’ sanremese potrebbe essere De Fonseca, ma alla fine son sicuro, per tutto quello che è successo, che avremmo portato Robespierre…e avremmo fatto un botto! (ride)