Dove andremo a finire? Ce lo domanda Umberto Maria Giardini in Mondo e Antimondo, il suo ultimo lavoro discografico uscito lo scorso 1 dicembre per La Tempesta Dischi. Una domanda che lascia un presentimento amaro in bocca. C’è una certa cupezza nelle riflessioni e nelle canzoni del cantautore marchigiano, naturalizzato bolognese, uno dei più prolifici del panorama nostrano che, instancabile, anno dopo anno, ci regala con invidiabile naturalezza nuova musica.
Eravamo rimasti a Senza Eredità, disco “d’archivio” con cui nel 2020 Giardini ha portato alla luce canzoni mai nate dell’ex progetto Moltheni. E poi ancora l’EP Domus Meus, uscito nella primavera del 2023, contenente tre tracce, tra le quali l’inedito Le bilance della mente, registrate in presa diretta negli Mushroom Studios di Frisanco.
In Mondo e Antimondo, quinto album in studio firmato UMG, l’autore torna con dieci canzoni: dieci perle nere di lucidissima e finissima qualità compositiva e interpretativa. Un disco cupo, dicevamo, a tinte fosche, ma capace di momenti di luce bianchissima. Un chiaroscuro caravaggesco che dà tridimensionalità al suono e restituisce, autentico, il vissuto a contrasto dell’esperienza umana.
A volte sottile, a volte ruvido, come la sua vocalità di un’intensità rara, Giardini racconta di un antimondo diventato mondo, di un’umanità finita male, che ha evacuato l’empatia nella latrina, pronta a ingannare e addentare se stessa. Ma ci canta anche dei miracoli di cui sono capaci le parole e dei giardini che crescono rigogliosi quando si sceglie di amare con cura.
Dove andrà a finire la musica?, ci domanda infine Umberto Maria Giardini, richiamandoci alle nostre responsabilità di pubblico. Una musica impoverita dalle scelte opportunistiche delle major discografiche che, tutto sommato, ci accontentiamo di canticchiare pigramente. È finita, conclude, citando Bob Dylan. Lo stesso del Mister Tamburino che cantava Franco Battiato in Bandiera Bianca. E il monito è simile: non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare.
Mondo e Antimondo è stato definito un viaggio senza lieto fine. E se non fosse così? L’ho domandato a Umberto in una lunga e piacevole telefonata.
“Mondo e Antimondo” esce a oltre 3 anni di distanza dal tuo ultimo lavoro discografico firmato Umberto Maria Giardini. È stato faticoso scriverlo? Come ti approcci alla creazione di un nuovo disco?
Dedicarmi a un nuovo progetto per me è sempre molto rilassante, mai faticoso. Quando entro in studio a lavorare e registrare, entro nel mio mondo. Non percepisco alcuna ansia o pressione, principalmente perché sono fuori dalle dinamiche dell’industria musicale e delle major.
Da molti anni affido i miei progetti a La Tempesta Dischi, un’etichetta discografica indipendente che non ha alcun interesse a imporre particolari tempistiche, perché mira alla qualità. E io stesso non me ne impongo. Non fa alcuna differenza se tra un disco e l’altro passano uno o sei anni.
Mi sembra di capire che per te fare musica sia meditativo.
Sì, ecco, non nego che Mondo e Antimondo è stato particolarmente impegnativo. Era pronto circa un anno e mezzo fa. Arrivato a un certo punto, mi sono reso conto di non essere soddisfatto. Non è la prima volta che mi capita, anzi fa parte del mio carattere. I dubbi che avevo, alla fine, si sono materializzati a tal punto da cestinare il 90% del lavoro già pronto.
Quindi lo hai scritto praticamente da capo. Pazzesco!
Esatto, ho ricominciato da zero. Ma non direi che è pazzesco. Anzi, capita più spesso di quanto si possa pensare. Avere a che fare con la musica è come scrivere un romanzo. Può succedere di arrivare alla fine della stesura, rileggere tutto e non riconoscersi più in quel che si è scritto. Nel mio caso, conta molto il tempo.
Il tempo inevitabilmente scandisce delle fasi che hanno significati che a un certo punto decadono, decantano. Con questo disco è stato così. Mi sono sentito preso in giro dagli eventi, da me stesso. Le intenzioni iniziali erano passate. Quindi ho riscritto tutto dal principio. E devo dire che è stato molto stimolante.
Parlavi poco fa dell’industria musicale. A quali trasformazioni della discografia italiana hai assistito durante i tuoi oltre 30 anni di attività?
Sono molto disilluso. Più volte ho pensato che pubblicare dischi e promuoverli in tour non valga più la pena. La discografia è molto cambiata negli ultimi anni. È troppo costoso oggi registrare un disco, soprattutto se si è indipendenti. E le major lavorano in modo tirannico, scrivono i contratti in base alla distribuzione e alle vendite. In studio si riesce a stare non più di 10, 15 giorni.
È triste da dire, ma la qualità dipende anche dai soldi che si investono. Ci sono autori, come Alberto Ferrari dei Verdena o Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, che se avessero la possibilità di stare in studio anche solo 20 o 30 giorni sarebbero capaci di incidere dischi ai livelli di David Bowie.
“Mondo e Antimondo” è descritto come “un viaggio volutamente senza lieto fine”. Eppure, tutto si chiude con un appello all’impegno, all’etica. Mi piace pensare che quel “te”, a cui ti rivolgi nell’ultimo brano omonimo, rappresenti l’altro, la collettività. Oppure, perché no, l’atto stesso di amare. Allora ti domando, è davvero un disco senza lieto fine?
Ci hai preso in pieno. Quando dico “io per te”, non mi rivolgo necessariamente alla donna che amo. Quel “te” può essere un figlio, un genitore, la persona che sta ascoltando la canzone. Quel “te” è l’altro. È molto importante per me sottolinearlo, perché oggi siamo iperconnessi, eppure tendiamo sempre più all’isolamento, alla chiusura nell’interesse individuale. Cristiano Godano, che è mio ospite nel disco, ha definito “Mondo e Antimondo” un manifesto dell’incomunicabilità tra gli esseri umani.
Nessuno si parla più o lo si fa a fatica. Stiamo perdendo, proprio come fosse un allenamento, la capacità di comunicare, anche cose semplici. Nel disco denuncio questa nostra condizione. In ogni brano c’è sempre qualcuno che dice qualcosa all’altro, che fa una domanda nell’attesa di ricevere una risposta, nel tentativo di comprendersi l’un l’altro.
La denuncia di cui parli non mi sembra rassegnata, tutt’altro.
Sono d’accordo con te. Infatti si reclama qualcosa perché lo si desidera. Questo è un disco che lascia un po’ di amaro in bocca. Come molti dei miei lavori, è permeato di malinconia, di nostalgia, d’affezione a sentimenti meno positivi. Tuttavia, cerco lo spiraglio di luce.
Una curiosità. Come mai in “Le tue mani” non canti insieme a Cristiano Godano?
Cristiano in Le tue mani canta da solo perché ha scritto lui le parole, io la musica. È una melodia che gli ho regalato, proponendogli di incastonarci un testo. Sinceramente, non mi aspettavo una canzone d’amore.
Con chi altro ti piacerebbe collaborare in futuro? So che non sei affatto interessato al panorama musicale attuale. Ma qualcuna o qualcuno che ti ha colpito ci sarà!
Riguardo alle collaborazioni sono sempre stato molto scettico. Ho collaborato con i Verdena e pochi altri. Il più delle volte i featuring sono orchestrati dalle etichette con lo scopo di fare promozione, visualizzazioni e niente più. Ci sono artisti che prima di entrare in studio neanche si conoscono. A me interessa poco. Un cantautore che stimo molto e che meriterebbe un grande pubblico è Daniele Celona. Anche lui è sempre rimasto in una zona d’ombra, perché non ha mai accettato troppi compromessi.
Il tuo stile di scrittura ti caratterizza, è molto riconoscibile. Lo definirei onirico. Mancano connessioni di causa ed effetto, fai accostamenti insoliti, evochi immagini impossibili e bellissime. Come nei sogni. Cosa ti ispira a scrivere? E quanto c’è di personale?
Ho sempre definito i miei testi psichedelici, visionari. Non è una cosa voluta, ma anche quando è molto evidente l’autobiografia, le mie canzoni hanno come caratteristica principale la traduzione. Ognuno traduce quel che ascolta. Hanno quindi mille significati. L’unico significato è quello che ciascuno dà.
Nella composizione sei più istintivo o più metodico?
Sono molto rigido. Da sempre, anche quando ero Moltheni, ho un metodo che negli anni è rimasto lo stesso. In sala prove, lavoro da solo ed esclusivamente in strumentale. Non esistono parole, è una regola. Una volta che li pezzo comincia ad avere una sua fisionomia, convoco la mia produzione per arrangiarlo. Dopo molto lavoro, il brano ha una sua una spina dorsale e si registra in sala prove. Lì finisce la prima fase.
Nella seconda fase, a casa, ascolto la registrazione in cuffia e, sul divano, con carta e penna e i miei tre o quattro libri di riferimento, inizio a scrivere. Apro i libri, la prima, la seconda parola che leggo danno la scintilla e il fuoco si accende. I miei testi nascono tutti così. Continuo, poi, satellitare: giro intorno e le frasi vengono da sole, una dietro l’altra. Le uniche correzioni che faccio non riguardano tanto le parole, quanto la metrica.
L’Antimondo tour è partito il 25 gennaio all’Hiroshima Mon Amour di Torino. C’è una dimensione che prediligi tra lo studio e il palco? Che rapporto hai con il tuo pubblico?
Amo entrambe le dimensioni, anche se sono un animale da studio. Durante i concerti non parlo molto con il pubblico, non sono un gran simpaticone. Però mi piace molto suonare live, per godere della tridimensionalità del suono. Una volta che acquisisci padronanza, nei live accadono cose impreviste, improvvisate, non così didascaliche come le hai preparate. È bello rischiare, azzardare e stupire il pubblico, sì, ma soprattutto i musicisti che mi accompagnano.
Per salutarci, credi che “l’antimondo” sia diventato “mondo”?
Esattamente. Oggi tutto si è ribaltato. Nel titolo Mondo e Antimondo ho voluto riassumere questo concetto. Quel che sembrava utopia si è materializzato, l’impensabile è diventato reale. Bob Dylan, in un’intervista di poco tempo fa, ha detto che oggi gli artisti possono anche riempire gli stadi, ma è finita. Ha poca importanza che ci siano 80 o 80.000 persone, il pubblico ha una luce diversa negli occhi. È finita l’epoca in cui la musica cambiava la vita.
Forse la penso così anche perché non sono più giovane. Ma negli anni ‘90 la musica creava connessioni. Oggi non saprei. Accadevano cose inverosimili, come andare in tour con i Queens of the Stone Age solo perché la prima volta che suonarono in Italia, vicino Milano, eravamo 50 paganti e ci si incontrava nei camerini. A me piace l’autenticità, la profondità. Mi auguro torni.