Semplice è il nuovo album di Motta (recensione), uscito il 30 aprile per Sugar. È un album molto intimo, che rappresenta un nuovo approccio alla vita per il cantautore toscano, con una particolare attenzione per le piccole cose e l’importanza di ogni attimo vissuto, abbandonando tutto ciò che è superfluo e quindi non più indispensabile per la sua esistenza.
L’album si muove principalmente su due fili conduttori: da un lato vi è la concettualizzazione della parola “semplice”, che sta a significare sintesi ed essenzialità, dall’altro troviamo il riflettere sui rapporti sentimentali e sulla persona destinataria di codesti sentimenti.
Questi fili conduttori seguono due strade differenti che però, in un certo qualche modo, possono risultare collegate. La nuova ricerca dell’essenzialità e dei piccoli attimi della vita può considerarsi, in parte, anche la conseguenza della seconda.
La vita può, talvolta, assumere una nuova prospettiva quando si raggiunge una certa pace interiore sorta dalla corrispondenza di determinati sentimenti. Motta sembra vivere proprio questo. L’amore di cui parla è un qualcosa di maturo ma che lascia spazio anche a delle piccole insicurezze: “Sai che c’è? / Che non riesco a non pensarti via da me”. Ma questa parte un po’ malinconica viene sovrastata dalla voglia di costruire qualcosa insieme all’altra persona: “Via con te per diventare quello che ancora non sono stato”
Motta tornerà presto a suonare dal vivo con un tour estivo. I primi due concerti che faranno parte del tour saranno il 21 luglio a Milano al Carroponte e il 10 settembre a Roma all’Auditorium Parco Della Musica.
In occasione dell’uscita di Semplice abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui. Ecco cosa ci ha raccontato.
Una delle cose che risalta di più nell’ascoltare l’album è il cambiamento di prospettiva avvenuto in te. Vi è da un lato una particolare attenzione alla quotidianità in quanto dimensione che sfugge e dall’altro un distacco da alcune cose oramai ritenute futili e non indispensabili. Per quanto distrattamente può risultar banale, quanto segue è uno dei pilastri che metaforicamente sorregge l’album: “A me che ormai non me ne frega quasi niente”. Quando si arriva al raggiungimento di questo distacco dal mondo esterno e dalle sue raccomandazioni o condizionamenti?
Non lo so perché, ma non sono convinto di aver raggiunto tale distacco dal mondo esterno. Però diciamo che dal momento in cui non percepisci il fermarsi e il rimanere a guardare le cose come una mancanza di movimento, questo può risultare più interessante di cercare di scappare dalle cose. Non è che il mondo esterno non esiste più, questo distacco è soltanto una voglia di stare e di stare bene. Questo è ciò che ho cercato in quest’album, forse ancora non l’ho trovata ma sicuramente sono andato a cercarla.
Citandoti, questo distacco potrebbe essere un qualcosa che si raggiunge con la fine dei vent’anni (ndr primo album di Motta – La fine dei vent’anni)?
Beh La fine dei vent’anni è stata tanto tempo fa e nel frattempo ho cambiato idea tantissime volte, ho accettato le contraddizioni presenti in me e che ho palesato in Vivere o morire. Sicuramente più vado avanti, più ho meno voglia di scappare dalle cose.
La voglia di semplificare/sintetizzare, nasce dalla consapevolezza di aver vissuto complicandosi un po’ i piani?
Semplice è una ricerca, non mi azzarderei mai a definire la vita semplice, anzi, la vita, per tutti e per tante sfaccettature, è tutt’altro che semplice. La ricerca per andare a eliminare il superfluo è anch’essa difficile; è una cosa che cerco, non soltanto io, soprattutto dopo quest’anno.
Rendersi conto di alcune risposte a domande che apparentemente risultano banali ma che non lo sono, capire veramente come so quello che voglio, capire quello che mi fa stare bene e quello che mi fa stare meno bene, le persone che voglio veramente, cercare di non perdere tempo inutilmente. Queste sono le cose che ricerco, è un processo difficile.
Cambiando prospettiva possiamo collegare il discorso a Qualcosa di normale. “E alla fine non ho più paura / di stare a guardare / qualcosa di normale”. Dietro la nascita di questo brano c’è una storia molto interessante, puoi raccontarcela?
Il brano è nato da un sogno che ho fatto in cui De Gregori veniva ad ascoltare il brano a casa dei miei. Successivamente l’ho contattato e ho cercato di farmi consigliare qualcosa, anche dal brano, dal suo stile, si può notare che l’ho ascoltato molto in passato. Mi consigliò di cantarlo con una donna e una delle voci femminili che preferisco di più è quella di mia sorella. Ciò ha cambiato in qualche modo il punto di vista del brano, perché è ovvio che quando si parla di amore con una sorella è un po’ diverso. È una canzone nata prima della pandemia, in un momento in cui veramente non avevo paura di guardare qualcosa di normale. Il testo ha poi assunto anche un significato diverso dopo tutto quello che abbiamo passato.
Parliamo di Quando guardiamo una rosa, la canzone che hai scritto con Brunori Sas. Ti ha mai accarezzato l’idea di farlo anche cantare nel brano?
Sinceramente non ci siamo posti il problema di cantarla, perché volevamo fare una cosa insieme, ovvero scrivere. Detto questo, da parte mia c’è assolutamente la voglia di cantarla insieme a un concerto, magari un giorno la registreremo insieme. Comunque il fatto di non cantarla insieme non ha in alcun modo provocato meno vicinanza, anzi forse è anche stato più bello e più nostro.
Visto che il disco è stato anche prodotto e realizzato pensando alla dimensione del live stesso, come te lo immagini? Hai già cominciato a fantasticare su una possibile scenografia?
Sulla scenografia ci stiamo lavorando, quello che so è che musicalmente ci sarà una parte psichedelica maggiore rispetto ai precedenti tour che ho portato in giro. Innanzitutto, per la prima volta i musicisti presenti saranno gli stessi che hanno suonato nel disco, quindi conoscono ogni sfaccettatura presente nelle canzoni e questa cosa si sta sentendo molto durante le prove.
A te è il brano che apre l’album, esso rappresenta una dichiarazione di intenti. Constatando ciò la domanda sorge spontanea: è la prima traccia che hai scritto oppure è arrivata in un momento in cui avevi maturato una consapevolezza maggiore e una visione più chiara della strada che poi l’album avrebbe preso?
È uno dei primi brani che ho scritto. A livello testuale è un po’ diverso dagli altri, come se fosse un anello di congiunzione tra i miei lavori precedenti e questo disco. Diciamo che è stato uno dei primi punti di partenza.
L’ultima osservazione è sulla cover dell’album. Per la prima volta il tuo volto non compare in copertina.
Abbiamo fatto un po’ di prove e c’erano già alcune cose che mi piacevano e convincevano anche molto, però mi piaceva più questa poiché si sposava con la ricerca di rimozione del superfluo. Ho preferito non essere in copertina, mi sembrava la scelta più giusta per quest’album, a prescindere da una copertina bella o brutta. Questa era la più giusta di tutte.
di Alessandro Pirrone
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