Orange Road è un fumetto giapponese del 1984, trasmesso come anime in Italia con il nome di È quasi magia Johnny. La trama, semplice e simpatica, è un triangolo amoroso tra Johnny, Sabrina (carismatico sogno di tutti gli adolescenti dell’epoca) e Tinetta, strainnomorata di lui. In un susseguirsi di situazioni paradossali, si scopre che il timido e impacciato Johnny può spostare gli oggetti con il pensiero. Ma perché parlare di un personaggio della mia infanzia? Perché è positivo, allegro e sincero ma anche capace di enormi slanci emotivi. Le sue riflessioni, amare e delicate allo stesso tempo, squarciavano il velo di un modus vivendi complesso, caratterizzato da influenze tipiche della cultura asiatica, basata su un etica del sentimento, dei rapporti amorosi e delle interconnessioni umane. Petullà, artista torinese prossimo ai trenta, ricorda molto questa delicatezza agrodolce. Ascoltando i suoi lavori, non si può non apprezzare l’enorme sforzo narrativo.
Una tavolozza di parole a tinte pastello, concentrata su una narrazione con gli occhi al cielo velato di lacrime fugaci. Sarà che poi Torino appare così agli occhi di chi la guarda: città di frontiera, porta di un Europa sospesa tra la frenesia delle autostrade verso l’impero austroungarico e il quieto vivere delle sue montagne.
Brera (si, il quartiere di Milano… ve l’avevo detto che era un puzzle multiforme) è uno scanzonato inno ad un amore che vive di attimi notturni, jeans da slacciare e ricordi da costruire. La forza di piccole mani stampate su grosse luci al neon. Con Bagni 9, il fil rouge racconta di un estate in chiaroscuro, l’eterna bilancia tra il tempo che scorre e il vivere liberi i propri sentimenti. Il tempo è uno dei temi che formano Io scheletro tematico della produzione dell’artista torinese: è nemico spietato ma allo stesso tempo coperta amichevole di una concezione sognatrice.
Concetto che si acuisce nella intima Le luci fuori. Traccia che esplora tutte le sfumature della vocalità di Petullà, donando un tocco magico ad una preghiera accorata, un atto di fede trapuntato da una dichiarazione d’amore e di protezione. E sembra quasi di vederlo Johnny che protegge da una panchina la sua Sabrina: “Siamo la stessa sete di risposte”. Quanto si può invidiare la capacità di descrivere il quotidiano senza paroloni o pesanti iperboli.
Cara Lidia è la descrizione di una anima vicina, sospesa tra desiderio e segreta ammirazione. “Tu vivi di istanti, io vivo di te” come estremo atto d’idolatria che consuma aria nei polmoni e sposta pacchetti di cuore. È la descrizione di un amore lontano da schermi social, rifugiatosi in attimi rubati e preziosi.
Zara, ultimo singolo e golosa merenda autunnale, punta a una progettualità più matura e cosciente. È traccia in cui raccontare e farsi raccontare con semplicità. “Un giorno mi dirai perché detesti Zara” è come dire “per sempre”. È un segreto da scoprire, perché c’è tanto tempo davanti a noi. Petullà sfida il cielo grigio con gli occhiali da sole, convinto dei suoi mezzi e dei suoi sentimenti. Sembra amico fedele e compagno perfetto a cui raccontare felicità è segrete delusioni. Lo abbiamo incontrato per alcune domande.
La tua produzione è una miscela sapiente di sentimenti positivi, riflessioni malinconiche e sguardi sognanti. Sembra quasi che tutta la tua poetica sia un “grazie” alla vita. Quanto le tue esperienze hanno impattato sulla tua musica?
Grazie. Credo mi rappresenti questa descrizione. E’ uno degli obblighi che mi sono imposto: cercare di avere sempre lo sguardo “vispo”. E per me significa proprio omaggiare il fatto di essere al mondo, di starci con coscienza critica, che poi è quella che mi porta a volerlo vivere con il sorriso. con gli altri e con la malinconia del mio bagaglio personale, che però per me è un sentimento positivo. La mia musica è sicuramente il riflesso di questo ed fatta di esperienze mie ma respirate con le persone.
In Brera e Bagni 9 parli di spazi urbani distanti ma dalla indiscutibile capacità di evocare ricordi. Parlaci del ricordo più bello che hai associato alla tua musica.
Tempo fa ho scritto una canzone molto introspettiva che rappresenta un po’ un appunto per ricordarmi di pensare alla malinconia in maniera positiva. L’ho scritta pensando a mio nipote e un pomeriggio mi si è addormentato sulla pancia mentre gliela sussurravo. Quella quiete raggiunta all’improvviso mi ha fatto stare bene.
Quando hai capito che la strada che avevi intrapreso era quella giusta? Quando e se hai pensato “ecco, questo è Petullà, l’artista”.
Non l’ho ancora capito e non ci ho ancora pensato. Non mi piace quella definizione, e in generale tutte le definizioni mi sembrano un po’ discriminanti. E poi non sono un musicista nel vero senso della parola. Cerco semplicemente di esprimere e condividere delle emozioni.
In Le luci fuori parli di condivisione di un percorso di vita, con tutte le difficoltà che donarsi ad un altro essere umano può comportare. Siamo una generazione egoista? È davvero tutto così arido? Alle soglie dei trenta, è la disillusione la malattia di cui tutti soffriamo?
Non credo sia un problema generazionale, è un riflesso della società. Il consumismo porta egoismo e apatia. Sicuramente dai trent’anni queste due componenti si amplificano, soprattutto se crollano stabilità che magari erano più comuni e trasversali fino agli anni 80. Per cui sì, la disillusione è un rischio. Anche se in fondo credo che ci sia un gran bisogno di ideali importanti e la percezione è che la nostra generazione si stia svegliando dopo vent’anni di sonno. La musica in questo può essere un mezzo importante per esprimere dei valori.
Un featuring. Con chi ti piacerebbe suonare? Quale delle tue canzoni?
Con Francesca Michielin e con Maurizio Carucci. Mi piace la loro genuinità. Ho tenuto due canzoni inedite nel cassetto per loro. Chissà, prima o poi…
Tanta gavetta, tanti festival. Sei un animale da palcoscenico? Sei uno di quei cantanti che cerca di guardare ogni persona negli occhi mentre suona? A cosa pensano le persone che ascoltano le tue canzoni?
Non credo di essere un animale da palco. Però mi piace viverlo, soprattutto con la band, e guardare negli occhi il pubblico. In fondo scrivo per suonare dal vivo, mica per riempire la scrivania di fogli. E credo che questa necessità emerga quando sono sul palco. Sinceramente non lo so a cosa pensino, ma spero che pensino alle loro esperienze di vite. Che si emozionino pensando al loro bagaglio di vita.
Sia in Cara Lidia che in Le luci fuori parli di un anima in cerca di se stessa. Una timidezza che riesci a tratteggiare con delicato realismo. È un tratto autobiografico?
Sono dei lati di me, forse quelli più femminili, e le definisco canzoni block notes. Come quelli che appendi in frigo per ricordarti delle cose. Ecco quelli sono appunti per ricordarmi cosa voglio essere, anche quando non ne ho le forze.
Consigliaci un libro e un disco.
Ho finito di leggere da poco “Nessuna Voce Dentro” di Massimo Zamboni, storico chitarrista dei CCCP. Mi è piacuto tantissimo, lui ha una capacità di scrivere per immagini davvero superba. Disco, un po’ datato. 2017. Album degli Her dal titolo omonimo. Bellissimo. Peccato si siano sciolti.
Zara. La paura di perdere qualcuno di importante. Un tema che tratti con tetra leggerezza. Esorcizziamo le nostre parole sempre con il sorriso, come fossimo invincibili. È così difficile ammettere le proprie paure? Come artista, hai a disposizione un farmaco che a noi non è concesso avere nei riguardi della vita?
Tetra dici? Non so, in realtà è proprio la descrizione di un fervore adolescenziale con la maturità di chi ne ha trenta di anni (mannaggia). Comunque sì è difficile ammetterle, perchè implica rimanere da soli con se stessi a guardarsi dentro. Comunque è meglio averle le paure, meglio che essere apatico e disilluso no? Il mio farmaco è guardare le cose con gli occhi da asilo nido. Cercare di emozionarmi sempre.