Viaggio notturno con Rachele Bastreghi: “Psychodonna”, il dramma e la disco
“Che dici, ti andrebbe di intervistare Rachele Bastreghi per l’uscita del suo ultimo EP Psychodonna?”
Si sente il rumore della penna che cade sul tavolo e il tempo si ferma. È il 26 marzo del 2013, sulle poltrone polverose del teatro Bellini di Napoli. Con gli occhi lucidi, per un attimo tutti ci guardiamo: c’è qualcosa di sacro nell’aria. È la voce di Rachele, la ascoltavo per la prima volta dal vivo.
Sì, dai, perché no. Ok, forse muoio. Sto sia morendo di paura che morendo dalla voglia.
È andata più o meno così. E dopo pochi giorni, ho potuto chiacchierare con Rachele Bastreghi, cantante, musicista e componente dei Baustelle. Avevo consumato il suo ultimo disco da solista. Lo avevo ascoltato tutta la notte, che è il momento perfetto per entrarci dentro. “Psychodonna” è il viaggio notturno della cantautrice toscana dentro sé stessa. Un unione di contrasti, dove il caos dell’energia e il silenzio della libertà trovano uno spazio per esplodere di vita. Qui un estratto del suo racconto che puoi trovare integralmente sul nostro canale You Tube.
Io, se sei d’accordo partirei dal titolo. Cosa ti ha portato a scegliere questa parola, Psychodonna, e quale messaggio porta con sé?
Psychodonna voleva fotografar-mi, perché poi è un mio viaggio interiore, introspettivo, di riflessione. Uno sguardo proprio su di me, ho puntato il faro dentro, per vedere le mille sfumature, sfaccettature che lo abitano, che mi abitano. E che mi danno anche i contrasti per le riflessioni stesse. Psyche in greco significa anima e questo è un disco che mette un’anima a nudo. Mi sembrava bello. Poi anche psycho rientra un po’ anche nel discorso sulla follia che è una parte fondamentale per il mio lavoro, per la creatività. Racchiude una donna un po’ senza mezze misure, queste tante sfumature, tanti colori. Un’esplosione di colori che avevano bisogni di essere veicolati, capiti da me e poi condivisi.
Hai definito questo lavoro “Un dramma in disco”. Una location particolare per un dramma (o forse no).
Anche lì, rappresenta i due lati un po’ opposti. C’è una parte un po’ drammatica, struggente. E invece poi la parte ballerina, un po’ pazzarella, che ama ballare. Una è molto in movimento e l’altra è più riflessiva e più anche autocritica, più contenuta.
Il primo singolo che ho avuto modo di ascoltare è Penelope, dedicato a una figura letteraria e mitologica molto interessante. Una figura che possiede la notte e che possiede le mancanze perché poi si ritrova a dover fare il proprio viaggio notturno. Per questo volevo chiederti: in che rapporto sei con questo personaggio, con la notte, con la riflessione e, se ti va, anche con le mancanze?
La notte è il mio habitat naturale, da quando sono bambina. Quando studiavo, per poi fare scena muta di giorno. È un luogo di raccoglimento, dove mi ascolto di più, mi permette di chiudere un po’ con la realtà. Tutto intorno tace, tutto si ferma. E io faccio casino. Rivengono fuori i contrasti. Cerco silenzio per poi fare rumore, come dico in Come Harry Stanton.
E ritornano sempre, le stesse parole / Quando chiudo con tutto e scrivo la mia canzone / Preferisco il silenzio, per poi fare rumore / Preferisco l’inverno, il freddo che cerca il sole
Un luogo intimo nel quale cerco di lasciarmi andare, cerco di spogliarmi delle paure e delle mie maschere. Mi sento più libera e forse trovo anche il coraggio di fare quello che volevo fare.
In questo tuo viaggio interiore, c’è anche un senso di paura?
Sì, la paura c’è sempre. Non se ne andrà mai, penso. Va veicolata, va anche un po’ lasciata vivere. Va coccolata, va ascoltata. Anche la fragilità che fa paura, l’insicurezza. Mettersi alla prova, lasciarsi andare, come dicevano tanti altri cantautori. C’è la paura, però qui la voglio guardare in faccia. Voglio che diventi costruttiva e non autodistruttiva. Una forza creativa.
Un tuo verso molto interessante di Penelope recita “Lei crede nel sole, io nella confusione”. Per te cosa rappresenta credere nella confusione?
La confusione che mi abita e che a volte mi sfasa. Però io sono una persona non ordinata. Come se io buttassi all’aria tutto ed è anche un voler giocare con quello che ho. Non dare un ordine preciso, non seguire delle regole. Quindi semplicemente seguire sé stessi.
Lo stratagemma che inganna il cuore / Dura ogni notte e il giorno muore / Lei crede al sole e io nella confusione
Quello che poi riveli quando dici in Not for me che l’ordinarietà e l’ordine non fanno per te.
Io ascoltavo molto Battiato quando ho iniziato a scrivere, proprio per questa attitudine alla sperimentazione, ad esplorare suoni senza darsi per forza una struttura fissa nelle canzoni. Era un viaggio che volevo andasse da sé, che mi portasse da solo quello di cui avevo bisogno in quel momento. Mi sono fatta io un viaggio.
C’è un po’ di Battiato in questo disco?
Sì, c’è sempre Battiato. Ci sono tutte le esperienze, tutto quello che mi ha sempre affascinato. Tutte le scoperte che ho avuto fin da bambina. Io parto con la musica classica, con lo studio del pianoforte. C’è molto Bach. E nascono, le mie canzoni, più o meno sempre al piano, con i giri armonici. Poi da lì costruisco stratificazioni. E strumenti su strumenti, incastri. Mi sono data libertà di spaziare anche nell’elettronica, nelle colonne sonore, nel barocco col clavicembalo. Nei ritmi, nelle percussioni. Ho giocato con tutto quello che mi rappresenta, che mi piace.
Cosa ti ha dato il coraggio di far uscire questo tuo forte senso di indipendenza, di sperimentazione?
La consapevolezza. E l’esperienza, anche. Sognavo sin da bambina di fare un disco. Ho fatto una lunga esperienza, per me ha rappresentato tanto. Mi ha dato gli strumenti per fare quello che volevo fare. Quando si tratta di musica ho delle idee che voglio siano quelle, voglio portarle a termine. Ho una visione. E dovevo avere gli strumenti giusti per farlo. Ho fatto un percorso per arrivare ad oggi. Ed è stata un’urgenza mia espressiva, che mi ha permesso di mettermi alla prova di uscire dalla comfort zone. Di fare questo viaggio da sola, che è anche una nuova ripartenza. Bisogna rinnovarsi, mettersi a rischio.
Nell’ultimo brano, Resistenze, al termine della canzone, c’è un’invocazione molto toccante verso i tuoi genitori, il babbo e la mamma. Commovente, forte. Che operazione c’è stata qui?
In quella canzone c’è una fase anche di cedimento, di consapevolezza. Di sentirsi persi, di avere paura di non riconoscere quello che si è stati. Sono domande che mi sono fatta durante la lavorazione del disco. E c’è questo spontaneo richiamo un po’ a quella che sono stata, da dove vengo. C’è un senso di tornare agli effetti più puri, alla parte di me anche tenera, di cui non avere paura. Ritornano i temi dell’infanzia e della rinascita.
Vero, vero. Poi è anche questo senso di ‘originario’, di tornare alla cosa più originaria che hai dentro.
Sì, ti riporta anche un po’ con i piedi per terra, alla realtà.
Per ricordarsi da dove vieni, il tuo mondo.
Mamma ti voglio bene / Anche se tremo / Se vivo male / Babbo ti voglio bene / Vorrei parlare / Ma dentro piove