“Senza eredità”: l’addio di Moltheni è una lettera d’amore che ci ricorda chi siamo
Ad alcuni di voi sarà capitato di trovare il vecchio diario, scritto in adolescenza, una foto analogica o una cartolina, smarriti in un cassetto insieme ad altri oggetti dimenticati. Quando succede a me, provo solitamente un misto di curiosità e timore. Forse, ho paura che rivelino lati di me che ho smarrito nel presente oppure, che mi raccontino una storia diversa da quella che ho impresso e custodito nei ricordi. Il nuovo disco di Moltheni, a mio parere, racchiude queste sensazioni, solo che, ascoltandolo, permane la gioia del riconoscersi in ciò che si credeva perduto nel tempo.
Umberto Maria Giardini, scrive un ultimo capitolo del progetto Moltheni.
Il Disco, intitolato “Senza Eredità”, è uscito a dicembre 2020 per la Tempesta dischi ed è una raccolta di undici brani inediti. Si tratta di una pubblicazione preziosa e ricca, imperdibile per chi, come me, guarda con devozione e nostalgia il panorama alternative rock italiano degli anni ’90.
La mia libertà è il brano d’apertura del Disco. Una dichiarazione di intenti che rivela l’anima e le idee che hanno caratterizzato il percorso di Moltheni. Segue Ieri, ballata folk dal sapore anni ’90, grande omaggio ai valzer di Elliott Smith. L’Autore marchigiano ripercorre atmosfere e sensazioni passate, in un viaggio introspettivo, accompagnato da sonorità acustiche e ben studiate, come ne Estate 1983 e Sai mantenere un segreto?.
C’è spazio per alcune parentesi rock, come ne Il quinto Malumore, brano in cui emergono distintamente le basi e le influenze del Moltheni che, sul finire del secolo scorso, condivideva il palco con i Verdena e gli Afterhours. Tra i miei pezzi preferiti, annovero facilmente Ester: memorabile dichiarazione d’amore su atmosfere vintage. Degno di nota, però si rivela anche Nere Geometrie Paterne, a mio parere uno dei brani più introspettivi e meglio costruiti del Disco.
Non mi capita spesso di trovarmi emotivamente coinvolta nei miei ascolti.
Tuttavia, Senza Eredità è un disco a cui ho voluto bene. Per la sua autenticità e cura, per l’onestà musicale di Umberto Maria Giardini, che ci ha permesso di ritrovarci in quei suoni e quelle parole che, seppur appartenenti al passato, sono tuttavia capaci di parlare ancora a gran voce, per ricordarci e raccontarci chi siamo.
Di seguito, trovate l’intervista all’Autore, che ci ha svelato qualche curiosità legata al Disco. Inoltre, UMG ci regala una riflessione molto interessante sulla situazione dei lavoratori del mondo della musica, in tempo di pandemia.
“Senza eredità” è un titolo significativo per un Disco considerato il capitolo finale di Moltheni. Come va interpretato?
Va interpretato come un addio, dopo quello già avvenuto nel 2010. “Senza eredità” è un’ultima lettera d’amore verso coloro che hanno amato questo progetto, e verso me stesso. La nostalgia di quegli anni nel tempo è inevitabilmente riaffiorata, ma la musica, per quel che mi riguarda, in fondo in fondo centra poco.
Mi ha incuriosito pensare al tuo lavoro di ricerca di brani “incompiuti”, quasi come ci fosse un conto in sospeso da sistemare. Come e quando ti è venuta l’idea? Com’è stato il processo?
L’idea non è partita da me, bensì da molti amici che da tempo mi chiedevano che fine avessero fatto quei brani che non avevano mai visto una “luce definita”, con una registrazione vera e propria, ma che in realtà l’avrebbero meritato. Corradino Corradi è stato il più grande fan dell’iniziativa, credo che il merito di questo lavoro sia fondamentalmente suo. Persona straordinaria e di grande entusiasmo, Corrado mette energia benevola in ogni cosa che fa. Molto di quello che faccio oggi è per merito suo. Assieme a lui, anche l’etichetta e il distributore sono stati ottimi partner dell’operazione, ma non posso dimenticare certo anche tutti coloro che hanno suonato in questo ultimo capitolo di Moltheni. Hanno rappresentato la spina dorsale del disco: un sentimento che nel tempo continua a rinnovarsi, fatto di persone che mi sopportano, che mi vogliono bene e che anch’io amo.
Ho trovato il testo del brano d’apertura “La mia libertà”, molto intenso. Ho pensato ad un manifesto personale, ma in un certo senso anche ascrivibile ad una generazione di musicisti, che si rivolge al mondo della musica di oggi, con uno sguardo critico e distaccato. Può essere una chiave di lettura?
Assolutamente sì. “La mia libertà” è l’unica traccia scritta recentemente. La rappresentazione di un legame tra quello che ero un tempo e quello che sarei stato oggi, se fossi ancora Moltheni. Abbozzato nel 2018, il brano rispecchia tantissimo la mia visione della vita e tutto ciò che ancora cerco in essa, dopo tanti anni. Purtroppo nel nostro Paese mancano ancora molte libertà. Una è di sicuro quella di poter dire la verità, quella reale, poiché sia la rete, che il giornalismo becero, la modificano in continuazione a loro piacimento.
C’è un pezzo che consideri particolarmente rappresentativo del Disco?
Credo che non ci sia un brano più importante dell’altro, se dovesse esserci io non me ne accorgo, forse anche alla luce del fatto che mi interessa poco. Questo disco è un disco-raccolta: non ha momenti più alti di altri. Infatti, va interpretato come un flusso di coscienza che lega nostalgia a dolcezze infinite, quasi sempre legate al passato. Il futuro non è contemplato per una semplice e ovvia mancanza di fisionomia.
Le sonorità dei brani richiamano le atmosfere cantautoriali italiane degli anni ’90. Ci parli delle tecniche di registrazione utilizzate per questo Disco?
La tecnica è esattamente quella usata da sempre. Faccio e produco musica come facevo venticinque anni fa. Parto generalmente dallo studio, cercando quel che si adatta meglio ad un determinato suono che ho elaborato nella mia testa. Prima di registrare un nuovo album, penso molto, moltissimo. Controllo la scheda tecnica dello studio scelto e mi affido a fonici di buona esperienza, che siano perlopiù empatici nel considerare le esigenze di risultato che desidero ottenere in quel preciso lavoro. Spendo tantissime ore in sala prova con i miei collaboratori. Riguardo alle parti di chitarra elettrica e per i cantati, quasi sempre improvviso direttamente in fase di rec. Quando ho ultimato la registrazione delle parti di batteria, basso e chitarra acustica, tutto il resto vien da sé, senza bisogno di prepararlo troppo prima. Uso la tecnologia giusto quel che serve per velocizzare il lavoro di editing, poc’altro.
Sappiamo che, oltre al tuo impegno in vari progetti (Pineda, Stella Maris), continui il tuo lavoro di cantautore firmandoti come Umberto Maria Giardini. Che evoluzione artistica c’è stata? E cosa conservi di Moltheni?
La mia evoluzione è stata marcatissima negli anni, ma si tratta di un processo di difficile lettura, soprattutto per coloro che non hanno alle spalle un bagaglio culturale musicale importante. La carriera Moltheni, durata circa dodici anni, è stata caratterizzata da numerosi cambi di rotta stilistica, che con leggerezza ha abbracciato molteplici generi; pop, rock, in piccoli episodi hard rock, folk, psichedelia, ecc… Il tutto condito da una scrittura di stampo cantautoriale molto schietta e profonda. Dopo la breve esperienza del progetto Pineda, in cui mi sono riavvicinato alla batteria, nel 2012 ho recuperato le sei corde, usando definitivamente il mio nome UMG.
Tuttavia il mio studio si è sempre progressivamente allontanato dal concetto di cantautore, che francamente mi annoia a morte. Mi sono dedicato di più alla composizione, alla scrittura e al canto che restano oggettivamente l’ingrediente principale del mio DNA di lavoratore della musica. Di Moltheni conservo dei bei ricordi e un’attitudine alla scrittura applicata alla musica che riesce a miscelare più di chiunque altro malinconia e tenui raggi di gioia. Questo è tutto.
Il Covid-19 ha rappresentato un enorme ostacolo per i lavoratori del mondo dello spettacolo. Come stai vivendo la mancanza dei live?
Lo sto vivendo come tutti. Rassegnato mi adeguo e attendo. Ribadisco per l’ennesima volta che il disastro che il Covid-19 ha rappresentato un ostacolo per i lavoratori della musica, ma NON per TUTTI i musicisti. I giornalisti in questi mesi hanno volutamente fatto finta di dimenticare un particolare scomodo, ovvero che un numero impressionante di musicisti in Italia ha guadagnato fino a ieri vagonate di soldi che permetterebbe loro di stare a casa per altri dieci anni senza nessun tipo di ripercussione economica. La solidarietà, quella vera, deponendo le armi dell’ipocrisia e della falsità di favore, va rivolta ai veri lavoratori della musica. A tutti coloro che permettono il reale svolgimento di un concerto, ai promoter che investono e che rischiano, ai tecnici, a tutti coloro che senza diritti e per quattro soldi lavorano ore e ore al freddo e al caldo prima di un evento.
L’artista passa sempre come colui che soffre perché non può più presentarsi sopra ad un palco, ma non è così, la verità è un’altra e non è nascosta. Ovviamente molti di loro hanno perso tanto, ma è sbagliatissimo dimenticare o fare finta di dimenticare tutti gli altri (e ce ne sono tanti) che fino a ieri hanno sguazzato nella pozzanghera del business della materia musica, con cachet mastodontici quasi sempre immeritati. Il vero eroe che va tutelato e preservato è il musicista operaio, non il musicista ricco.
Che progetti hai per il futuro?
Mi sto dedicando da mesi alla conclusione del nuovo album di Stella Maris che considero, per gli appassionati del genere, un piccolo capolavoro. Lavoro a questo nuovo disco da circa un anno e mezzo ininterrottamente. Prometto che si tratterà di qualcosa di potente e bellissimo. Presto, prima dell’estate, inizierà anche la pre-produzione del nuovo album di UMG previsto per il 2022, di cui ho abbozzato già qualche brano. Diciamo che ho tanto lavoro e poco tempo per annoiarmi.
Foto in copertina di Avida Dollars