Te lo dico in rap: il libro di Kento, il rapper che parla ai ragazzi
Autore di Resistenza Rap, pubblicato il Italia nel 2016 e negli Stati Uniti nel 2017, il rapper Kento torna con un nuovo libro: Te lo dico in rap (Il Castoro, 2020). Un viaggio per ragazzi alla scoperta di un genere fondamentale per raccontare la realtà che ci circonda. Lo abbiamo intervistato per capirne di più sul suo ultimo lavoro editoriale.
Ciao Francesco, innanzitutto come stai?
Sto… bene! Sono in casa come tutti e ne approfitto per scrivere, raccogliere le forze e far passare al meglio questo periodo. Sto cercando, un po’ come tutti, di capire cosa succederà dopo, ammesso che qualcuno abbia un pronostico preciso ed esatto.
Da artista hai provato ad immaginare il futuro possibile per la musica?
Sicuramente tutti quanti abbiamo voglia dei uscire. Penso che tutti quanti quello che vorrebbe fare è andare a farsi un concerto, chi su palco chi ai piedi del palco. In una giornata bellissima di sole ti verrebbe di stenderti su un prato, ma è chiaro che il virus non scompare schioccando le dita e quindi sicuramente per i primi mesi ci saranno delle forti limitazioni e quindi non è detto che dall’oggi al domani torneremo a fare i concerti, o nel mio caso specifico, di ricominciare con le presentazioni del libro.
Infatti, nonostante la quarantena, noto il tuo essere in qualche modo attivo con il tuo libro “Te lo dico in rap”, ti va di parlarcene?
Te lo dico in rap nasce dal mio aver notato che in Italia non c’era nessun libro che parlasse di hip-hop ai ragazzi, a differenza degli Stati Uniti dove possiamo trovare numerosissimi esempi di editoria hip-hop per ragazzi. Questa era una lacuna che volevo colmare! Penso sia il periodo storico giusto per farlo, essendo l’hip-hop maturo per parlare alla gente. Credo che anche il mercato editoriale sia pronto a qualcosa del genere… e i primi risultati ci stanno dando ragione! Io non avevo scritto mai niente per ragazzi e l’importante casa editrice Il Castoro ha messo a disposizione tutta la sua esperienza e competenza rispetto al linguaggio da utilizzare con i ragazzi.
Quindi, il primo spunto è stata l’esistenza di una lacuna del genere. Dall’altro lato mi ha spinto la considerazione che i ragazzi crescono immersi nella cultura hip-hop anche se in forme più derivative che originali. L’immaginario visivo, sonoro e culturale attuale risente della cultura hip-hop, ma molto spesso non si sa da dove nasce. Mi sembrava bello restituire questo tipo di esperienza e conoscenza. Sicuramente contiene tutta la mia esperienza in merito. Io sono 10 anni che faccio laboratori di hip-hop per ragazzi. Il libro non è qualcosa di improvvisato, ma è qualcosa che mi permette di raccontare in maniera un po’ più precisa e dettagliata quello che nel poco tempo del laboratorio non riesco a fare.
La scelta di parlare a chi è in un’età in cui è più facile assorbire concetti e valori nuovi, piuttosto che provare a smuovere le coscienze di chi ha già una sua forma mentis, quindi, non è dettata dalla facilità di arrivo…
La scelta dell’età è stata piuttosto facile. Ne abbiamo parlato a lungo con l’editore che è un grande esperto dei linguaggi attraverso i quali si parla ai ragazzi. Tendenzialmente gli adolescenti ascoltano il rap e in qualche modo lo conoscono. I bimbi piccoli, invece, hanno ancora una capacità semantico-espressiva ancora un po’ da sviluppare. Ecco il motivo per cui siamo andati a metà strada: tra gli ultimi anni delle elementari e le scuole medie. Penso sia la scelta più appropriata.
Chi come me è cresciuto a pane e cantautori, fa fatica ad avvicinarsi al rap nella totalità della sua filosofia più solida che c’è alla base. Che valore in più ha avuto e ha il rap in Italia?
Il rap, indubbiamente, è il genere che racconta di più l’oggi. Da un lato non puoi parlare della società moderna senza parlare di rap, daresti una visione gravemente incompleta della realtà. Dall’altro lato il rap è il genere che racconta meglio la realtà che viviamo, nel bene e nel male.
Per me è importante aver scritto questo libro in Italia su un genere, che si si è sviluppato in diverse culture, ma che affonda radici nei quartieri poveri degli afroamericani e degli ispanici delle grandi metropoli statunitensi. È stato importante dare al libro un taglio filologico che fosse coerente con la nostra cultura, pur essendo consapevole delle scorciatoie intraprese. Ma è una scelta, ad esempio, non sovraccaricare di nomi e date il libro. Ci sono dei “consigli per l’ascolto” alla fine, ma volevo che la lettura fosse fluida.
Leggere le tue interviste significa farsi colpire dalla determinazione in cui impugni il rap come arma per una rivoluzione che parta dalle parole. Quali altri strumenti – anche di difesa – secondo te servono per provare a cambiare le cose?
Una domanda da un milione di dollari! Credo che ogni forma di espressione culturale abbia chiaramente il suo valore sociale. Per quanto riguarda il rap mi limito a rispondere che, oltre all’espressività di chi fa rap, un ascolto critico sia fondamentale da parte degli ascoltatori. Più che parlare ai rapper, io parlo agli ascoltatori provando a spingerli a pensare con la propria testa e di non accettare o rifiutare a priori niente di quanto leggono nei testi.
Torno un attimo alla quotidianità dei fatti. Sento dire spesso che questa quarantena è vissuta da molti come una reclusione. Addirittura qualcuno la vive come un momento di “libertà negata”. So che sei fortemente impegnato in progetti nelle carceri minorili. Cosa diresti a chi si esprime in questi termini nei confronti di un’azione necessaria, quella dello stare in casa?
Potrebbe essere uno spunto di riflessione per pensare a chi è recluso ogni giorno. Non certo nella comodità della propria casa e non certo con Just Eat o Amazon. Oggi giorno siamo tutti consapevoli di quello che è successo nelle carceri italiani, di tutti i morti che ci sono stati nelle carceri italiane di cui se né parlato un attimo e poi non se n’è parlato più. A me francamente, in questo periodo, a livello personale pesa moltissimo non avere nessun contatto con i ragazzi delle carceri minorili con cui lavoro di solito. In questo periodo tutte le attività sono sospese e io non ho nessuna forma di accesso alle strutture carcerarie… loro sono rinchiusi ogni giorno e non solo in quarantena!
Il tuo documentario “Voci da dentro” sembra essere un modo di invertire i ruoli. Si ha la sensazione di essere noi, con i nostri pregiudizi, ad essere dietro le sbarre…
Io ti dico che mi rendo conto che funzionano i laboratori in carcere quando mi dimentico di essere in carcere. Quando con i ragazzi si crea una dinamica che è esattamente la dinamica che si crea con i ragazzi delle scuole. Alla fine quello che bisognerebbe fare è viverle queste esperienze! So che non è possibile a tutti, però a tutti è possibile informarsi. In ogni città c’è un’Associazione che si occupa di detenuti o diritti dei detenuti.
Quando mi capita di fare laboratori con i ragazzi del liceo, dire “guardate che nella vostra stessa città, ci sono ragazzi che hanno la vostra stessa età e potrebbero stare con voi tra questi banchi, ma sono in cella”, è una delle cose che suscita più stupore perché i ragazzi sanno che esistono delle carceri minorili, ma sono delle realtà così vicine quanto lontane nello stesso tempo. Questa è sicuramente una cosa su cui la società italiana dovrebbe lavorare di più.
La tua figura da rapper sembra essere messa a disposizione per gli altri. Se ti regalassi una lampada magica con un solo desiderio, quale esprimeresti per Kento?
Per me? Continuare a fare quello che faccio senza particolari problemi. Tutto qui. Non ho grandi desideri inespressi in realtà. Fare quello che faccio tendenzialmente per sempre riuscendo a parlare sempre a più gente, ma fortunatamente da questo punto di vista non è necessario affidarsi ad una lampada magica.
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