Vanbasten, ecco perché le sue canzoni sarebbero dovute uscire tot anni fa
“Se ho qualcosa da dire, prima o poi troverò il modo per raccontarla”: potremmo riassumere così, con le sue stesse parole, la filosofia su cui Vanbasten forse involontariamente ha basato il suo disco d’esordio “Canzoni che sarebbero dovute uscire tot anni fa”. Si tratta di un album che ha preso forma negli anni, a suon di prese di coscienza e di ferite che, ad oggi, bruciano ancora. Ne consegue un’evidente necessità comunicativa che Vanbasten ha iniziato a tradurre in musica intorno ai ventidue anni. La sua passione prevalente fino a quel momento, quella calcistica, è tradita dal nome d’arte stesso. Ma questa è un’altra storia.
“Canzoni che sarebbero dovute uscire tot anni fa” contiene una dichiarata vena New Wave a partire dai versi Mi sentivo Ian Curtis/solamente un po’ più vivo contenuti nella prima traccia dell’album dal titolo Kenshiro. Non solo: il brano16enne lascerebbe sospettare una simpatia per i The Cure nel verso I ragazzi non piangono mai, sospetto che nasce anche ascoltando le sonorità del brano Mascara. Le sonorità dunque sono trasversali, potrebbero infatti contenere tracce di cantautorato dissacratorio: si noti ad esempio la lirica di Eurospin e la fragilità esposta in Santamadre.
Ma perché queste canzoni sarebbero dovute uscire tot anni fa? Probabilmente perché scene di violenza, sensazioni di smarrimento e voglia di riscatto per essere raccontate hanno bisogno di essere elaborate. Le canzoni di Vanbasten sono state celate nelle grigie mura di una inquieta interiorità fino a quando non si è raggiunta la libertà di voler condividere atmosfere e sensazioni. Che poi forse, è giusto così.
Alle nostre domande Vanbasten ha risposto così.
Il tuo disco d’esordio sarebbe dovuto uscire tot anni fa. Come hai riscoperto questo progetto e dopo quanto tempo?
In realtà è un discorso abbastanza semplice. Le canzoni le ho scritte nel corso degli anni, Mascara nel 2016, 16enne nel 2017, Pallonate addirittura nel 2014. È la vita quotidiana che porta a procrastinare ma vedendo il bicchiere mezzo pieno, ho avuto il tempo di migliorare e renderle al meglio. Quindi, bene così.
Il disco racconta di violenza e di dolcezza, di depressione e slanci vitali. A livello di scrittura dei testi, è stato difficile trovare un compromesso fra queste tematiche?
No. Preferisco creare una canzone basandomi su quello che vedo. Vivo in periferia e scrivo dello scenario di borgata romana che vedo tutti i giorni. È un immaginario abbastanza onomatopeico anche a livello di suoni: se un suono è duro è perché semplicemente in quel momento le parole hanno bisogno di quel suono lì per rendere al meglio.
A livello di sonorità è un misto fra The Cure e i Depeche Mode. A livello di produzione, com’è avvenuta la scelta delle sonorità?
Sì, ci sono delle influenze, anche se ho iniziato a suonare tardissimo. Durante l’adolescenza vedevo la musica in modo un po’ particolare, quasi di nicchia e i ragazzi con la chitarra a tracolla per me erano un po’ sfigati. Quindi le influenze musicali derivano in parte dallo stereo di mio padre e in parte dagli ascolti dei vent’anni, quando sono stato folgorato dalla New Wave, da Ian Curtis e quello che è venuto dopo. Quello che hai avvertito è vero e poi ci ho giocato un po’ per dare ad ogni canzone un vestito proprio, senza dover rispettare necessariamente dei cliché. La scelta dei suoni è abbastanza di pancia.
“Pallonate” è un brano manifesto del contesto generale della periferia, dello smarrimento generale. Mi racconti di questo brano così narrativo?
Ok, innanzitutto è una delle poche volte che questo brano è stato etichettato bene e in modo sintetico. Dunque, io sono cresciuto solo con mia madre, non ho avuto la percezione dei weekend fuori o di cose simili. Sono cresciuto o da solo a casa, o sotto casa. È quello che vedevo l’ho descritto in quella canzone. La periferia in cui vivo è stata marchiata dalla destra. Le serrande colpite dai palloni come se fossero porte e altre dinamiche così, apparentemente aride dal punto di vista descrittivo, sono in realtà enormemente pregne di contenuti sociali e morali. A me andava di creare un dipinto di questa situazione. Ne sono molto fiero.
Si può dire che nel complesso poter far ascoltare un disco simile sia liberatorio?
Sì, bravissima. È un po’ come quando non ti senti capito e hai l’impressione di dover spiegare sempre tutto. Ed effettivamente è catartico perché in una fotografia di dieci canzoni parlo di me e delle persone che ho accanto. A me piace molto scrivere delle persone a cui sono legato: l’ispirazione per me nasce dagli esseri umani, non dalle sensazioni o dalle storie d’amore. Le sofferenze e i paesaggi urbani sono cose giuste da descrivere.
Mi racconti un aneddoto della tua carriera o della tua storia personale?
Una storia che ti posso raccontare è come nasce questo progetto, che ha una sua unicità. Adesso io mi accollo il nome Vanbasten: Vanbasten sono io ma non sono stato sempre io. Il progetto è nato tanti anni fa e io non sapevo suonare. A 21 anni non avevo ancora toccato mezzo strumento e a un certo punto sono andato dai miei amici in comitiva per chiedere se ci fossero persone che volessero iniziare a suonare con me. Ed effettivamente tre pazzi come me alzarono la mano e cominciammo a suonare nel salone da parrucchiere di mio padre. Stavamo iniziando a muovere i primi passi. Poi abbiamo scritto un EP che tornerà presto e poi loro hanno iniziato ad avere delle difficoltà e io mi son ritrovato a portare avanti il progetto. Avrei potuto scegliere di presentarmi col mio nome, ma per me è come una responsabilità: voglio che quelle persone che mi hanno sostenuto possano ancora credere al progetto attraverso me.
Un po’ un portavoce. E perché il nome Vanbasten?
Sì. Il nome è casuale. Quando ero piccolo avevo una maglietta di Vanbasten, di quelle false. Dai a un bambino una maglietta da calcio arancione: non se la leva più (ride, ndr). Così il mio soprannome è diventato Vanbasten. Ed è rimasto anche come nome d’arte.