Per cominciare a raccontare l’incontro con Vasco Brondi e il suo ultimo album, “Un segno di vita“, uscito lo scorso venerdì, voglio partire da una citazione di un libro di Clarissa Pinkola Estes “Il giardiniere dell’anima”:
“Ma viene il fuoco. Ci fa paura. Ma lui comunque viene, talvolta per caso, talvolta di proposito, talvolta per motivi che nessuno può comprendere, motivi che sono una faccenda di dio soltanto. Ma il fuoco può dirigere ogni cosa verso una direzione nuova, una vita nuova e diversa, una vita che ha forze sue proprie e modi suoi propri per riuscire a forgiare il mondo.”
Comincio da qui, dall’immagine di questa fiamma viva che sembra indecifrabile, lucente e misteriosa perché il nuovo disco di Vasco Brondi è incentrato proprio sul fuoco. Un fuoco amico, un fuoco che scalda, un fuoco che schiarisce, chiarisce, illumina, consola.
Quello che ascoltiamo in questo nuovo disco è un ragazzo di quarant’anni che accende il suo fiammifero e ti invita a seguire una strada.
Una strada per certi versi tortuosa, impraticabile e impraticata, nella quale, però abbiamo degli strumenti a nostra disposizione. Ognuno di noi ha la sua luce da accendere, il suo pacchetto di fiammiferi e dal momento in cui ogni singolo fiammifero passa sulla striscia di abrasione, la luce si accende, ma il nostro tempo è limitato.
Vasco ti dice “Illumina tutto” ma tutto non significa necessariamente ogni cosa. Vuol dire avere la capacità di mettere a fuoco le cose, di fare una selezione, di concentrarsi sull’essenziale. Su quello che non necessariamente ci condurrà alla fine da vincitori, ma che sicuramente ci fornirà una chiave di lettura per illuminare questi tempi bui. Tempi di guerra, di dolore, di fretta, di terrore, di diritti negati, calpestati.
In questi tempi deturpati nei quali ci siamo dimenticati che nella vita non ci sono né vincitori e né vinti è come se Vasco avesse attinto nella sua cassetta degli strumenti, prendendo dal passato tutto quello che siamo stati per dire: adesso possiamo andare avanti.
«È la seconda volta che parlo del disco a voce alta, quindi è un po’ come se lo stessi comprendendo insieme a voi mentre lo spiego. Perché c’è questa questione che i dischi anche dopo 15 anni che sono usciti non hai mai il controllo totale della questione. La cosa che mi succede ogni volta che esce un nuovo album è quella di provare a togliere uno strato in più per cercare di arrivare un po’ più in profondità. Avvicinarmi ad un nucleo sia mio che del Pianeta Terra. L’altra questione importante è che ci deve essere sempre qualcosa che genera una scintilla.
Qualcosa che ha a che vedere col privilegio di questo lavoro che è quello di essere obbligati a evolvere.
Cioè proprio un dovere evolversi per evolvere in qualche modo quello che fai. E perché abbia un senso continuare a continuare a farlo. Forse è anche per questo che mi prendo sempre un po’ di tempo tra un disco e l’altro. Mi sembra che il disco precedente sia uscito ieri e invece sono già passati tre anni abbondanti. Diciamo che ormai ho anche la pazienza di aspettare il tempo che ci vuole. E questo tempo non ha a che fare solo la parte pratica artigianale. Ma è un po’ anche questa questione misteriosa dell’inspirazione. Quindi è anche scomoda, per certi versi.
Perché siamo abituati a vivere in un contesto, in un’epoca, dove abbiamo talmente introiettato il modello delle macchine e dei macchinari che crediamo di essere tali anche noi, quindi anche di funzionare on-off, con gli stessi ritmi. Sia che abbiamo avuto una gioia, sia che abbiamo avuto un dolore.
Invece io penso che nella vita funzioniamo molto di più con le logiche di cui parlo nella canzone con Nada: quelle logiche senza senso le maree del vento. Ecco, forse sono quelli che vedere i veri meccanismi che governano anche noi. In particolare mi sembra che soprattutto l’arte abbia bisogno di questi di queste onde di raccoglimento che poi si ricominciano a infrangere.»
Vasco sorride mentre racconta il suo lavoro
La sua serenità interiore è palpabile, sincera, ha deposto l’ascia di guerra dei primi dischi e ha osservato quei mitici paesaggi dopo la battaglia, per portaci la sua luce, quella luce che viene da dentro e che dipende dall’attitudine di chi sa rispettare i suoi tempi, di chi sa perdere tempo solo per il gusto di farlo. Per il semplice fatto che perdere tempo ha ancora ha che fare con la capacità di tenere la mente sgombra, scacciare le nuvole e ascoltarsi.
Anche dal punto di vista melodico le sonorità sono più lineari, le sperimentazioni elettroniche, lo stridere di chitarre elettriche lascia spazio ad una dimensione che è più “pop”.
Un pop che lui stesso definisce impopolare.
«Ho lavorato di più in questo disco con quello che mi sembrava più sperimentale per me in questo momento: la forma canzone con i ritornelli, le ritmiche. nella misura in cui sono tutti pezzi più movimentati esattamente al contrario del disco precedente che tra l’altro così l’ho voluto presentare con “Chitarra nera” che non è forse neanche veramente una canzone con la forma canzone parlata, dura sei minuti.
Di conseguenza le tracce che ho scelto sono il frutto di un processo di semplificazione che mi ha portato a scegliere quelle che non necessariamente fossero le più belle ma che siano le più importanti, rispetto a ciò che volevo dire in questo disco.»
Non a caso il primo singolo e una delle prime tracce del disco è “Un segno di vita”, proprio per ricominciare dalle macerie, da quei paesaggi sconsolati nei quali i fiori sbocciano dai detriti, con la pioggia che scende scrosciante, che lava tutto e penetra nel terreno per generare nuove esistenze, nuove entità a cui aggrapparsi disperatamente.
A poche ore dall’uscita del disco è uscita poi un’altra perla del lavoro di Vasco che, non a caso, si intitola “Fuoco dentro” e nella quale duetta con Nada. Su questo incontro, l’artista racconta:
«Quando ho scritto questa canzone, ho immaginato veramente subito Nada anche se ci ho messo mesi se non quasi un anno a mandargliela, nonostante ci conosciamo da tanto tempo. Quando poi finalmente mi sono fatto coraggio e le ho inviato la canzone lei subito mi ha detto che quella che ritraevo era una figura di donna che conosco molto bene, in cui mi rivedo molto e poi tra l’altro quando gliele ho fatte sentire tutte mi ha dato una definizione del disco che ho adorato perché mi ha detto: Vasco è molto bello, sono tutte canzoni di amore e di apocalisse.»
Effettivamente, fin dai primi ascolti, mi è subito apparso chiaro che delle dieci tracce che compongono “Un segno di vita” non ce n’è una che funziona meno. Non ce n’è una di cui salto l’ascolto.
Sono tutti piccoli tasselli che concorrono assieme per dare al disco questa sfumatura di rosso acceso, che invade ma ti lascia entrare piano, piano, recitando versi di speranza, nei quali le cose belle possono e devono accadere, ma tutto dipende da noi:
«Siamo in un’epoca di transizione, cioè, tutte le epoche poi possono essere considerate tempi bui o non esserlo. Però la cosa che sempre possiamo fare, e qui mi viene da citare Calvino che dice una cosa importante in merito, è cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio.
Credo che anche le canzoni, ma anche noi stessi possiamo essere dei segni di vita, dei segni di luce.
E questa prospettiva è un modo che per affrontare questi tempi anche quando sembrano più oscuri. Penso che la cosa più giusta da fare sia semplicemente viverli, tirarci dentro fiduciosamente e schiarirli con la nostra presenza. Ho pensato che le canzoni potessero essere anche questi fuochi della notte ma in generale, con la nostra presenza non dobbiamo solo essere accecati dall’oscurità, ma prestare anche attenzione alle luci per quanto piccole possano essere e alimentarle.»
Un’altra considerazione lampante che mi viene ascoltando “Un segno di vita” è che in ogni brano, non c’è traccia di pessimismo
Ѐ come se Vasco in questi anni si sia preso del tempo per diventare davvero “popolare”. Per parlare, cioè, dei tempi moderni, non col cinismo di chi non ha più niente da perdere. Ma con la consapevolezza che possiamo ancora essere piante che germogliano e che possiamo piantare alberi secolari oggi che saranno vita quando non ci saremo più. E questi saranno il nostro messaggio per l’umanità.
La costante che è rimasta invariata sempre nei suoi testi è che sembra rivolgersi sempre ad una seconda persona singolare. Questa in genere coincide con un’anima a cui chiede una salvezza, raccontando spesso storie di donne che trovano il loro posto nel mondo lontane dalla provincia.
Dunque chiedo: che posto occupa Vasco nella narrazione?
«Negli anni ho capito che in generale lo scrivere le canzoni è il mio modo di entrare in contatto col con gli altri. Per me la canzone è sempre stata una sorta di dialogo che mi veniva abbastanza naturale. Spesso le canzoni hanno un ché di inevitabile. Quindi è come se fosse per raggiungere qualcuno. Dall’altra parte ci può essere un amico che non c’è più, una ragazza oppure il referente può essere anche un dio, come nel caso di “Un segno di vita”. Quando ero piccolo le scrivevo nella provincia, nella noia e quello era un canale.
Poi prestare la voce non significa dar vita a delle autobiografie ambulanti. Per me le canzoni hanno sempre qualcosa di mio, qualcosa degli altri, qualcosa che mi sono immaginato; è difficile capire la differenza fra una cosa e l’altra. Mi viene in mente Wim Wenders che, quando gli chiedevano rispetto a “Paris, Texas” suo grande film, se fosse una storia vera, lui rispondeva “adesso sì”. Ecco, per me è un po’ così. Queste canzoni qui, adesso sì, sono storie vere.»
C’è una canzone nella quale canta “forse è vero che si sta meglio da piccoli che da grandi senza un figlio.” Mi ha fatto fare un balzo indietro a quando Vasco cantava: “Cosa racconteremo a figli che non avremo di questi cazzo anni zero?” Eppure, oggi parla di speranza, di un futuro nel quale le cose non vanno così male. Gli chiedo di raccontarmi questa evoluzione.
«Diciamo che le canzoni poi cambiano con me anche. Questo lavoro del fare musica è interessante perché appunto si obbliga ad evolverci per evolvere quello che fai e quindi le canzoni che magari partivano nel 15 anni fa di ventenni adesso ci sono dentro trentenni o quarantenni quindi all’improvviso non ci sono più determinate notti tutti assieme e ci sono dei bambini dentro, quindi per me è interessante quello.
Poi quello che scrivo non sono dei saggi, né cose che io riesco a descrivere più di tanto. Penso che le canzoni vogliano dire quello che vogliano dire.
Io sono una persona che non sopporta le lamentele, non sopporto chi è accecato solo delle cose che non vanno e non guarda ai miracoli che ci accadono in questa parte di mondo. Parlo anche semplicemente di essere grati del fatto che quando apri il rubinetto hai l’acqua che scorre. Penso che sia proprio molto stupido avere una mente orientata solo a quello che non va, a stressarsi.
Non per niente il secondo disco si chiama “Per ora noi la chiameremo felicità” e parla della disperazione; la disperazione però come motore propulsivo per cambiare le cose. Per me era quella rabbia lì ad essere un motore per cambiare le cose, non di certo per autocommiserarsi o per lasciarsi trascinare da questo cinismo dilagante che penso offenda l’intelligenza umana soprattutto di chi vive di una determinata situazione.»
Tra le mie canzoni preferite del disco c’è sicuramente “Notti Luminose” sia per le ritmiche che per il messaggio.
Mi piaceva immaginare questa figura che osserva tutto dall’alto che ci rassicura tutti che in qualche modo andrà come deve, nonostante le case da cambiare, le strade pericolose. Mi piace immaginare questa donna che insegue i corridori stanchi per consolarli. Quindi chiedo a Vasco di dirmi di più.
«Quella lì, per esempio, è una canzone d’amore ma come piacciono a me perché è una canzone d’amore per un amico. Mi viene in mente una canzone che si intitola “Oceano di gomma” totalmente diversa degli Afterhours e che mi ha sempre colpito perché sembra una canzone d’amore e lo è, però è dedicata ad un amico. E c’è una dolcezza che anche tra uomini e fra amici difficilmente esce che mi ha sempre commosso. Infatti poi l’ho suonata dal vivo, l’ho cantata insieme a lui e l’abbiamo registrata assieme in un’altra versione.
E questa canzone è un po una cosa del genere. Ho sperimentato anche dal punto di vista musicale delle soluzioni che mai avevo attuato in una canzone, che non a caso ha dentro un po’ tutti gli estremi. L’amore, la guerra alle strade ancora pericolose e le città silenziose, infatti non per niente si intitola “Notti Luminose” che ha un corto circuito già nel titolo.»
Nei suoi testi c’è questo riferirsi sempre alla spiritualità.
Tra i termini che ricorrono spesso ci sono i riferimenti alle chiese ai santi, le madonne, i rosari: dato che comunica spesso la sua spiritualità, gli chiedo che spazio trova nella sua vita.
«In realtà la spiritualità non è una dimensione che può essere separata da tutto il resto. Sicuramente ecco il mio rapporto con il materialismo è anche peggiorato di molto. Nel senso che mi interessa sempre di meno chi è centrato sullo stare in questa ruota del criceto. Su questo mito della realizzazione lavorativa che porta a mettere una necessità dietro l’altra. Con la promessa che poi a un certo punto queste necessità portate a compimento, come per magia, ci faranno essere più sereni.
Questa è veramente una grande trappola del capitalismo. Per cui mi interessa tutto quello che non è questo e che può anche non avere a che fare con la religione. È proprio una dimensione di mistero se pensi che siamo su questa terra per pochi anni e non sappiamo per quanto tempo. Mi riferisco ai grandi misteri della vita ai quali cerchiamo di non pensare, di rimuoverli un po’ dal discorso: il fatto che siamo arrivati e spariremo, stiamo su un pianeta che galleggia in mezzo a chissà cosa. Cioè, queste cose più interessano quindi più che cercare di accumulare soldi o migliorare il mio profilo.»