Di Vipra mi piace che riesca a coniugare un itpop multiforme e scanzonato a una complessità dei testi che poco ha a che fare con la genericità del titolo dell’album “Simpatico, solare, in cerca di amicizie”, uscito a maggio 2021 per Asian Fake. Possiede la capacità di intercettare i malumori di una generazione che si ritrova suo malgrado a fare i conti con gli errori commessi da chi c’è stato prima. Un’eredità pesante, questa, che si ripercuote sulle aspettative di vita e che genera, d’altra parte, nuove modalità di resistenza, più o meno discutibili. La consapevolezza di essere parte integrante di un sistema, quello del fare musica, in Italia, oggi, che possiede quella forza sinistra di trasformare in merce consumabile, scambiabile, sostituibile l’artista e la sua arte. Produrre, ma allo stesso tempo essere prodotti e, talvolta, manipolati.
Mi sono chiesta in effetti cosa possa significare per chi tutto questo lo esperisce dall’interno, per chi, di questo meccanismo costituisce un ingranaggio, ma che ha anche la spinta a denunciarne i limiti. Vipra mi ha risposto così:
“Ha senso che chi lavora in un certo ambiente ne comprenda e ne denunci i problemi. La musica – come praticamente qualsiasi attività – ha subìto un processo di trasformazione in una specie di bolla finanziaria. Una vetrina in cui tre o quattro attori principali si litigano il posto per spararla più grossa, e tutti gli altri si scannano per poter stare con uno di loro. Queste sono cose che sono state analizzate da voci ben più autorevoli della mia, non mi invento nulla. Detto questo io non dirigo un’etichetta, non mi occupo di marketing o comunicazione, non distribuisco nulla, non decido cosa viene recensito e cosa, invece, rimane nell’ombra.
Gli artisti sono avidi di attenzioni per definizione, ma credo che il processo sia davvero troppo ampio perché possano esserne la causa. A me piace fare musica, e per quanto possibile evito di immischiarmi in logiche di mercato che non mi piacciono. È come chiedere a uno che critica l’impatto ambientale e la disumanità della catena di lavorazione della carne su scala industriale come viva la contraddizione di possedere quattro mucche che pascolano nel giardino di casa sua”.
E se poi succede che involontariamente la prospettiva narrante del singolo viene a coincidere in gran parte con il pensiero critico dominante di un preciso momento storico.
Ecco che sorge un po’ spontanea la curiosità di sapere se, e in che misura, questo ruolo di “megafono generazionale” sia stato voluto, ricercato o se sia semplicemente il frutto di un’intersezione fortuita tra l’esigenza di chi racconta e di quella di chi di quel preciso racconto fruisce, immedesimandosene, come quando leggi qualcosa e dentro di te pensi: “Non troverei parole migliori per descrivere quel qualcosa”.
“Nel mio lavoro di autore (quando partecipo alla direzione artistica generale dei testi in un progetto) c’è una parte che può definirsi “a tavolino” in cui si decide cosa e come si vuole comunicare, ma non molto di più. Le mille strizzate d’occhio, le amicizie giuste da mandare avanti prima di chiedersi se il brano sia valido o no, è un modo di lavorare che non capisco e che non adotto sugli altri, figuriamoci su di me. Gli artisti sono “generazionali” se riescono a parlare bene la lingua del loro tempo con le persone che ci vivono. Ma in realtà io non ho mai avuto la pretesa di rappresentare nessuno tranne che me e le mie idee, visto che i megafoni sono oggetti e io invece sono una persona”.
E che cosa vuol dire poi se il mondo che qualcuno di noi prova a raccontare subisce una battuta d’arresto improvvisa, incarnatasi nell’avvento della pandemia?
Un mondo che sotto molti aspetti, diciamolo, non funzionava proprio. Ora stiamo ripartendo. Ma non con studiata calma e con una mutata e consapevole visione di tutte quelle cose che semplicemente non andavano. No, stiamo correndo. Ancora una volta. Condividendo quanto letto da qualche parte che ora non sto qui a specificare: “l’idea di ricominciare da dove c’eravamo interrotti non è affatto così attraente”. E certo che non lo è. Lo stand by forzato che abbiamo vissuto in questi lunghi mesi doveva essere L’occasione sovrana per rivedere certi schemi e dinamiche sociali che da troppo tempo puzzano di marcio. Fretta, vedo solo un’immotivata, sconsiderata fretta di ricatapultarci alla situazione di prima, dando per scontato che quello fosse a tutti gli effetti “il migliore dei mondi possibili”.
Discorso analogo si potrebbe applicare alla musica, e a quel suo mercato così saturo e autoreferenziale che forse è il caso di rivedere, di rinnovare.
“Con la pandemia si sono interrotte alcune attività, altre si sono modificate. Ora molte cose stanno più o meno faticosamente riprendendo i ritmi e le caratteristiche di prima. Il covid si inserisce in un processo molto ampio e complicato iniziato prima e che è ovviamente continuato anche questi due anni. Non è l’intero punto della questione. Ci sono, per esempio, la crescente importanza del mercato rispetto all’artista, la disumanizzazione del rapporto col pubblico – anche se ti vendono il fatto che rispondere in diretta significa “stare vicino a chi ti ascolta” –, le sempre minori tutele sul lavoro, il cambiamento del ruolo degli artisti, l’evidente insostenibilità dell’economia musicale, l’assenza di qualsiasi controllo nella competizione.
E questo fa parte di un quadro ancora più ampio di povertà, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi, scelte criminali in materia ambientale, compressione dei diritti altrui. Uno dice: ma che c’entra? La musica è un piccolo specchio di una tendenza generale del post-capitalismo al quale si è adattata perché ha seguito la linea evolutiva del resto delle attività umane. Il mondo è diventato ancor più una merda, e così la musica. Questa è una domanda complessa, non c’è una risposta semplice, si dovrebbe scrivere un libro. Anzi forse meglio leggerlo”.